Ammettiamolo onestamente: in molti – e non solo a destra – hanno tirato un sospiro di sollievo per la caduta della proposta di legge Zan nella tagliola.
Personalmente confesso che il fatto non mi è dispiaciuto, nonostante la condivisione assoluta di tutti i principi che la proposta di legge affermava e la mia repulsione altrettanto assoluta per qualsiasi comportamento discriminatorio e non tollerante.
Ma anche per qualsiasi giudizio moralistico. O piccolo borghese, avrei detto da giovane, sull’onda dei versi de “La città vecchia” di De Andrè (oggi parleremo molto di canzonette): «…lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano / quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano. / Se tu penserai, e giudicherai da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni più le spese…».
Il fatto è che il disegno di legge (ddl) Zan proponeva uno dei tipici rimedi che una volta – quando il mondo politico era più facilmente identificabile e le ideologie erano nette – erano pressoché monopolio della destra: inasprire le condanne, senza avere appreso dalla storia e dalla scienza statistica che siffatta soluzione non è un rimedio, e che non c’è mai stata una diminuzione di reati per effetto di una legge che prevedesse una pena più grave. Perfino allorché si eseguivano in Francia le prime condanne alla ghigliottina per i borsaioli, tra la folla i pickpocket compivano furti.
Il ddl Zan, in realtà, non si limitava ad affermare e tutelare principi di parità già esistenti nel nostro ordinamento e positivamente considerati dalla nostra giurisprudenza, ma prevedeva punizioni per una serie di comportamenti delineati fumosamente: ciò che apre il campo alla discrezionalità, che non è ammissibile quando un’interpretazione in un senso o in un altro delinea un reato.
Proprio ciò, insieme a qualche forzatura che probabilmente un redattore più accorto e meno radicale avrebbe evitato, hanno determinato il destino della proposta.
Le mie frequentazioni democristiane degli ultimi anni mi hanno trasmesso un pizzico della malizia andreottiana; mi sono fatto così l’idea – ovviamente senza alcun riscontro – che la bocciatura del ddl Zan sia stata il capolavoro di Letta: leader PD che i miei amici democristiani, che tendono a democristianizzare ogni cosa, dicono essere democristianissimo.
Il disegno di legge Zan, per le ottime e condivisibili finalità e per la sua corrispondenza ad un sentire molto diffuso nella società attuale, era diventato una bandiera. Ma contaminata da eccessi inutili che via via si erano accumulati. La sua approvazione avrebbe determinato più problemi che soluzioni ed elettoralmente avrebbe sconcertato la parte più conservatrice dell’elettorato della stessa area politica che la proponeva: forse numericamente più rilevante di quella appagata.
Così il radicalismo è stato la soluzione: non cediamo a nessuna richiesta e aspettiamo che destra e dissidenza interna (con l’addebito a Renzi di ogni giochino politico, tanto ci è abituato) la boccino.
Così è stato; e ribadisco la mia non dimostrabile opinione personale che la “tagliola” in cui la legge è caduta abbia fatto tirare un sospiro di sollievo soprattutto al segretario del PD.
«Che ci azzecca er Piotta?», avrebbe chiesto a questo punto un noto pubblico ministero del secolo scorso, rimasto più famoso come tale che come politico, riferendosi al titolo dell’articolo di oggi.
Ci azzecca in pieno, perché, secondo me, il ddl Zan era un emblema del politicamente corretto.
Er Piotta (Tommaso Zanello), cantante rapper notissimo a Roma, ha fatto, non importa se consapevolmente o no, una grande operazione culturale, nei tempi della“cancel culture” riprendendo un autentico capolavoro romanesco, la canzone Lella, del 1971 di Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli, interpretata nel tempo da grandissimi cantanti romani e non.
Una canzone oggi improponibile, politicamente scorrettissima – “pasoliniana” secondo alcuni – nella quale un uomo racconta ad un amico di quando, quattro anni prima, aveva ucciso Lella, «la moje de Proietti er cravattaro, quello che c’ha er negozio su ar Tritone», con la quale andava d’inverno sulle spiagge di Ostia a «fa’ l’amore cor freddo che faceva però le carze nun se le tojeva». Lella d’impulso l’aveva lasciato: «Me so stufata nun ne famo gnente. E tireme su la lampo der vestito» e lui, per la delusione e rabbia, l’aveva strangolata e sotterrata «co’ ‘ste mano», senza rimorsi, attento soltanto «a nun sporcamme sur vestito»
Quest’uomo racconta nuovamente la storia, cinquant’anni dopo – Er Piotta la canta da rapper – con un finale diverso: senza pentimento, colla coscienza dell’inferno: «Sotto questa pioggia inverno che me porta indietro / Sopra ‘sto tereno mollo sabbia gonfia de veleno / Scrivo un ultimo epitaffio in cielo come arcobaleno / Pensavo che era amore, ma non era vero (E te lo vojo di’) / Cinquant’anni fa ero un pischello e mo so’ vecchio e stanco / Dio, se m’ascorti, aprime che sargo (E te lo vojo di’) / Te pago il conto, manname all’inferno / Brucerò nel fuoco eterno ma senza un rimpianto».
Ecco: se Lella fosse il ddl Zan, avrebbe rimpianto chi l’ha “tagliolizzato”? E accetterebbe l’inferno?
(Nota redazionale: non ho parlato di questo mio articolo col nostro Direttore editoriale, l’amica Anna La Rosa, che forse mi avrebbe consigliato maggiore compostezza, ma, per un errore – una “S” in più – con un’altra mia amica, Anna la rossa, che, invece, molto divertita, non m’ha frenato).