Cambiare l’attuale sistema delle grandi città con un centro che ha tutto e decide tutto e i quartieri periferici abbandonati a se stessi? Si può e si deve per ricostruire un tessuto urbano integrato ed evitare l’emarginazione.
Londra, più di altre grandi capitali nel mondo, ha nel suo DNA, nella sua storia, un susseguirsi di esperienze epocali che l’hanno resa laboratorio socio-economico rilevante e utile allo studio delle fragilità e opportunità dei modelli urbani contemporanei. Più volte sono tornato a Londra negli anni e ho tratto sempre nuovi spunti di riflessione sul rapporto fra città e periferie. Ho osservato con gli occhi dell’uomo comune, non certo dell’urbanista.
Londra è una megalopoli costruita intorno alla vocazione di grande piazza finanziaria nel mondo; detiene un PIL accostabile a quello di una media potenza mondiale.
Mi ha colpito particolarmente la filosofia e la materialità unitaria delle infrastrutture urbane e l’autonomia identitaria dei quartieri sul piano economico, culturale e civile. Vivere lì in un satellite urbano consente al residente di essere cittadino a pieno titolo godendo di standards medi da Piccadilly Circus; infrastrutture, cultura, socialità, servizi pubblici sono organizzati in autonomia nello spazio territoriale di una piccola città di provincia italiana. Immagino che un londinese residente in uno dei 32 borghi metropolitani voti alle elezioni amministrative in una dimensione compiuta e matura di cittadino di sua maestà britannica.
Superare l’emarginazione delle periferie
Possiamo pensare ad una simile integrazione e coesione in una grande città italiana? Forse Milano si avvicina agli standars europei, non certo a quelli londinesi, ma cosa succede a Roma, a Napoli, a Torino, a Palermo, nelle grandi città italiane? Succede che il livello di crescita della città è assolutamente distante da quello dei singoli quartieri periferici e che il residente di quei quartieri vive un sostanziale senso di esclusione, soffrendo in modo crescente l’allargamento della forbice dei redditi a favore della borghesia dei centri storici, la carenza di servizi pubblici, di verde, di attività culturali e sociali diffuse. È possibile superare tendenzialmente questo stato di cose? Si, ma a condizione di coinvolgere le periferie nella progettualità sociale e territoriale, che i progetti economici di crescita siano declinati territorialmente, diversificando lo sviluppo nei singoli quartieri, cogliendo opportunità, tradizioni, vantaggi, specificità.
Decisioni decentralizzate
Non tutto insomma può essere deciso nei grattacieli o nei palazzi agiati dei centri storici, le attività devono essere decentrate in modo razionale e utile al cittadino come alla produzione di beni e servizi. Il mercato del lavoro, lo stesso orientamento scolastico sarebbero più umanizzanti e coinvolgenti se gestiti dentro i singoli territori, con l’ambizione di costruire specifiche eccellenze territoriali, facendo di ogni quartiere qualcosa di riconoscibile, dove si torna a casa con orgoglio e dignità, dove è nota la storia e la crescita di una vita personale e di comunità. Non ultimo il controllo dei territori e il governo dell’ordine pubblico. Dove infatti c’è questo abbandono allignano grande e piccola delinquenza. Così anche la politica, l’unità della civitas, ne trarrebbero forza e coesione, con una partecipazione reale alla vita pubblica, non di facciata, vissuta consapevolmente. Insomma costruire bene le parti esterne delle città è uno degli investimenti più grandi sul futuro della nostra Italia. Quartieri forti e identitari rispecchieranno la preziosa e diffusa multi-diversità del Paese. Non siamo all’anno zero, esistono realtà su e giù per la penisola che hanno molto da dire su unicità e prolificità, d’altronde note nel mondo.