Tutti assolti nel giudizio di appello di Palermo, gli imputati “militari” e “parlamentari” del processo sulla presunta Trattativa Stato-mafia: per “non aver commesso il fatto” il senatore Marcello Dell’Utri; perché “il fatto non costituisce reato” gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.
Il dispositivo della sentenza è stato letto lo scorso mercoledì 22 settembre e la notizia dell’assoluzione è subito balzata al centro del dibattito mediatico: scalzando non soltanto il molto noioso argomento delle mini-amministrative del 3-4 ottobre, ma addirittura la stanca coda delle polemiche sulla Green-card.
Il dibattito è stato vivo, per la indubbia valenza politica di quel processo: un’ipotesi accusatoria che ha coinvolto, nel tempo, non soltanto Dell’Utri e gli ufficiali oggi assolti, ma anche altri illustri politici, con obiettivo finale Silvio Berlusconi. Ne ricordo alcuni: il martire della malagiustizia, Calogero Mannino, assolto nel 2020 dalla Cassazione proprio in relazione alla presunta Trattativa Stato-mafia, con una decisione le cui motivazioni hanno certamente influito sulla sentenza di Palermo dello scorso mercoledì; Nicola Mancino, pure lui assolto in precedenza dall’accusa di avere taciuto sulla conoscenza dei fatti; addirittura Giovanni Conso, reo e favoreggiatore presunto per non avere prorogata, da Ministro della Giustizia “tecnico” (estraneo, quindi, ai giochi politici), l’inumana modalità di detenzione stabilita dal 41-bis ad un centinaio di detenuti; finanche il Presidente Violante, pure lui accusato di reticenze.
Lungi da me l’idea di svolgere una disamina della sentenza: le motivazioni saranno pubblicate tra non meno di qualche mese e fino ad allora si possono fare solo illazioni sul ragionamento seguito dai giudici della Corte d’Appello di Palermo. Si potrebbe, cioè, soltanto seguire, se si volessero commentare le ragioni della sentenza, l’errato metodo che proprio i giudici di appello hanno clamorosamente bocciato: quello della decisione di primo grado, che ha elevato prima ad indizi e poi a prove ciò che erano mere illazioni e puri teoremi accusatori: se potete leggetela direttamente la sentenza di tribunale e fatevene un’idea propria.
Illazioni a parte c’è una certezza, c’è un principio non enunciato che si può trarre dalla sentenza assolutoria. Un principio che è ovvio e che sarebbe imprescindibile, se non fosse che la deriva giustizialista con la presunzione di colpevolezza che prevale su quella di innocenza, lo hanno travalicato. Così i giudici di appello di Palermo hanno ricordato a tutto il mondo giudiziario che anche di fronte all’accusa di mafia sono necessarie prove granitiche per condannare una persona: laddove oggi bastava l’accusa, con l’immediata approvazione “a prescindere” della tesi dei pubblici ministeri, subito elevata a verità ed a condanna da parte dei media.
Discorso che introduce una serie ulteriori di considerazioni sulle quali questa rubrica si è più oltre soffermata. In particolare sull’obbligatorietà dell’azione penale che giustifica e copre qualsiasi iniziativa accusatoria, anche la più fantasiosa ed infondata: col corollario della questione dell’autonomia del Gip, che deve autorizzare gli atti della procura: una autonomia di decisione spesso esistente solo sulla carta, e solamente formale di fronte ad accuse di mafiosità. (In disparte la questione se la divisione delle carriere tra p.m. e giudicanti servirebbe ad una maggiore equità del sistema).
Discorso, questo, che apre anche all’altra grande questione della carcerazione preventiva. Che da un lato, in ipotesi estreme, è necessaria: ma che ignora il dato essenziale che si sta privando della libertà una persona la cui colpevolezza è ancora tutta da accertare. Così non distinguere il regime di detenzione di chi è ancora un innocente in attesa di giudizio, da quello del colpevole accertato è un atto di una iniquità, ma anche di una illegittimità estrema: specie se si ammette che nella pratica la carcerazione preventiva è spesso usato dalla parte inquirente, in maniera strumentale al raggiungimento della prova della colpevolezza: laddove questa dovrebbe già essere insita nell’accusa e non dimostrazione da conseguire successivamente all’arresto. Insomma quel “tintinnio di manette” che più volte è stato denunciato al massimo livello di Capo dello Stato, come minaccia illegittima contro il cittadino.
Innocenti – perché si è tali fino a sentenza definitiva – che nel caso di specie hanno espiato carcere preventivo ingiusto e duro, perché non differenziato il carcere preventivo da quello definitivo, come invece dovrebbe essere e che si sono viste le loro vite irrimediabilmente sconvolte.
Così è stato per Dell’Utri, Moro, Subranni e De Donno.
Con una accusa frutto di un teorema, riferito ad una fattispecie fumosa, dove neppure il reato è chiaro in cosa dovesse consistere e da quale norma fosse previsto.
La giustizia è il più terribile dei poteri. Diventa ingiustizia quando crocifigge un innocente.
Dell’Utri ha dichiarato che non tornerà alla politica, ma troverà consolazione nei suoi libri.
Certamente rileggerà di Edmont Dantès, il marinaio imprigionato ingiustamente da una cospirazione giudiziaria. Chissà, forse solo l’età avanzata gli impedirà di seguire la trama romanzesca e di trasformarsi nel vendicativo Conte di Montecristo.