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Parlamento-Governo serve un nuovo equilibrio

domenica, 19 Settembre 2021
2 minuti di lettura

Il dibattito sulla legge elettorale distrae da quello che dovrebbe essere il tema del conftono politico, cioè l’assetto istituzionale del Paese.

Sul finire degli anni ‘70, l’Italia attraversava un periodo particolarmente delicato, caratterizzato da un’estremizzazione, se non da un’esasperazione, dei toni del dibattito politico, a causa delle numerose pulsioni destabilizzanti, che pressoché quotidianamente minacciavano gli assetti pre-costituiti (anni, questi, che, non casualmente, sarebbero poi stati ridenominati, mutuando la dizione da un noto film del 1981, «di piombo», e attraversato dalla c.d. strategia della tensione).

L’occasione era propizia per riflettere sul rapporto tra le scienze costituzionalistiche, piú inclini a non prescindere da riferimenti pratici, e il dibattito politico stricto sensu inteso. In particolare, la rimeditazione, relativa al ruolo degli apparati governativi induceva taluni a riconfigurare in senso ampliativo il ruolo del Parlamento, al quale sino ad allora la giuspubblicistica non sembrava peraltro aver riservato molta attenzione, limitandosi ad un’analisi di taglio esegetico dei regolamenti parlamentari e delle norme costituzionali.

Di là dalle varie proposte per amplificarne il ruolo, come quella d’intensificare le numerose potestà al Parlamento facenti capo (variamente classificate in «ispettive», «decisionali», etc.), ciò che viceversa doveva porsi prioritariamente in luce era la necessità d’un ripensamento del problema assembleare in una (sovente negletta) chiave «storico-evolutiva». Sí da porre in luce la tendenziale incompatibilità dell’istituzione parlamentare con il principio democratico, quanto meno se acriticamente inteso, e viceversa la sua tradizionale consonanza ad un meccanismo se non censitario, quanto meno mono-classe, e pertanto inidoneo a farsi carico delle tensioni agitanti le moderne società pluralistiche.

Ne conseguiva allora l’assoluto rafforzamento del sistema partitico, e altresì l’istituzionalizzazione dell’instabilità in seno all’esecutivo, agevolata peraltro dai governi c.dd. di coalizione. Ma sarebbe stato velleitario pretendere di restituire organicità al sistema conferendo una rinnovata centralità all’istituzione parlamentare, dacché la preminenza dei partiti avrebbe sicuramente impedito di maturare realmente le decisioni in Aula, dal momento che esse si precostituivano in verità nelle direzioni dei partiti medesimi.

A frapporsi ad un siffatto disegno stava il crescente ruolo dell’Esecutivo, anche questo non adeguatamente spiegabile se non in virtú di un’argomentazione storico-economica, in quanto tale rinvigorimento era a ben vedere funzionale a realizzare sempre piú incisive ingerenze dello Stato nell’economia, così da garantire adeguate forme di razionalizzazione di quest’ultima. Il decadimento del tradizionale assetto politico liberale era coevo e consentaneo al tramonto d’un sistema economico liberal-liberista, il quale già dai primi del Novecento aveva ceduto il passo ad un piú moderno «Stato sociale» (Welfare State). Modello, quest’ultimo, al quale evidentemente poco si confaceva la dispendiosa dialettica parlamentare, lunga nei tempi e inidonea ad imprimere coerenza ad un modello sviluppo non di rado pianificato a monte (c.d. programmazione).

Tali riflessioni inducono un dubbio: per conseguire un più adeguato assetto istituzionale, probabilmente è necessario agire non tanto sulla legge elettorale, bensì sulla forma di governo.

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