mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Crocefisso nelle scuole: decidano i politici non gli ermellini

In questi ultimi giorni tutti gli organi di stampa hanno dato notizia di una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite stante la rilevanza della decisione, sul Crocifisso nelle scuole: è la sentenza 8 settembre 2021, n. 24414, per chi volesse leggerne le 65 interessantissime pagine.

Devo necessariamente avvertire che non è il giurista che scrive, ma il cittadino: che, quindi, non svolgerò una disamina tecnica, ma mi abbandonerò ad alcune considerazioni che la vicenda mi ha ispirato (anche se, confesso, la sentenza mi ha suscitato impulsi giovanili, della mia appartenenza alla scuola jemolana ed agli anni della redazione de “La rivista di diritto ecclesiastico”: non escludo una mia “nota a sentenza”, ma con i tempi lunghi e meditati dell’epoca pre-informatizzazione).

In primo luogo, quindi, il tempo lunghissimo della giustizia.

La vicenda – una querelle tra un docente che toglieva il Crocefisso dalla parete dell’aula durante la sua ora di insegnamento, nonostante l’assemblea di classe avesse deliberato di volerlo e contraddicendo una disposizione al riguardo del dirigente scolastico – risale al 2008, tredici anni fa.

Ad un momento sociale e culturale completamente differente da quello odierno. A voler tacere di altri (numerosi) eventi che hanno influenzato il comune sentire, basta ricordare che dal 13 marzo 2013 è Pontefice Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, e che la cultura cattolica da allora è profondamente mutata, ponendo in primo piano temi e valori diversi.

Una influenza che investe certamente anche chi si professa laico o addirittura ateo: perché incide non soltanto sull’atteggiamento culturale di qualche miliardo di fedeli (1,3 miliardi di cattolici, ma non è indifferente all’altro miliardo di cristiani di altre confessioni) ma, comunque, sull’intera società occidentale che sui valori cristiani è fondata.

Il tempo tra fatto e decisione, quindi, è rilevantissimo: diverso l’atteggiamento culturale di chi ha deciso rispetto a quello dei protagonisti del fatto; diverso anche il contesto ordinamentale e giurisprudenziale generale: sia in UE che in Italia.

La verità è che la questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte non riguardava il Crocefisso in sé e per sé, ma la minima sanzione disciplinare di sospensione per alcuni giorni comminata all’insegnante che lo rifiutava. Tanto che la prima massima che dalla sentenza è stata tratta recita «L’affissione del crocifisso, al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione».

Con una serie di distinguo: dal regolamento degli anni venti del Novecento – che tuttora disciplina il Crocefisso nelle scuole – suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione; al rispetto e non discriminazione delle altre religioni.

La presenza del crocifisso, quindi, è subordinata alla valutazione autonoma della comunità scolastica interessata. Per quanto, si avverte dai giudici del 2021, in materia religiosa la Corte Costituzionale ha stabilito da tempo che non prevale il criterio della maggioranza numerica, mentre, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza.

Così che non appare chiaro in base a quale criterio – diverso dalla valutazione della volontà di una maggioranza – una comunità scolastica possa affrontare il problema.

La verità è che anche la questione del Crocefisso – spiace dirlo, ma è così – si riporta, nel 2021, alla follia subculturale di origine Usa del turbamento della delicatissima e fragile psiche di un occidente super benestante e super decadente: di quello, insomma, che fa precedere e seguire le lezioni su Caravaggio da colloqui con lo psicologo; o che vieta Shakespeare; o che impone al docente che volesse dare un voto basso allo studente di comunicarlo tramite uno specialista, perché l’asino di turno non debba sentirsi tale. La preoccupazione, quindi, è nostra: in giusto ossequio ai principi giuridici che ci siamo dati, ma anche con una sorta di complesso “politically correct”, nei confronti dell’Islam, che (culturalmente differente) non si pone analoghe domande nei paesi dov’è maggioranza.

Così la Suprema Corte ha dichiaratamente cercato una soluzione «conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità». Pervenendo alla pilatesca soluzione che «allorquando la comunità scolastica valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un “ragionevole accomodamento’” che consente di favorire la convivenza delle pluralità».

Una soluzione che non mi piace. Che legittima il diritto di tutti, anche di un singolo che si dichiari seguace di Manitù di far mettere un Totem a fianco al Crocefisso o di un versetto del Corano.

O che potrebbe trasformare le nostre aule scolastiche in tante piccole Gerusalemme: col Muezzin che chiama alla preghiera i musulmani da un minareto attaccato al Santo Sepolcro e con i controlli per arrivare alla Spianata delle Moschee; con i barbuti rabbini ortodossi che guardano con sospetto chi si avvicina al Muro del Pianto, esercitando un discrezionale potere di accesso; e con i cristiani, bontà loro, che sono i più agguerriti di tutti, con continue liti “possessorie” tra le varie confessioni, sulle varie colonne e cappelle del Santo Sepolcri.

Non è, insomma, questione da giudici, che se ne sono giustamente lavati le mani con una soluzione pilatesca, ma di politici.

Il guaio è che non se ne vedono all’orizzonte, neppure passando in rassegna uno per uno i nomi delle migliaia di candidati alle prossime elezioni di ottobre.

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