Il dado è tratto. Renzi ha attraversato il Rubicone della scissione e marcia con le sue legioni verso la creazione di un soggetto politico completamente nuovo.
Le caratteristiche di questa novità politica ancora non si conoscono. Ma, escludendo che voglia formare un partito di destra o che voglia restare nel solco della sinistra tradizionale modello Pd, tutto lascia pensare che Renzi voglia collocarsi in un’area riformista moderata.
Possiamo chiamarlo centro? Presto per dirlo. Anche perché la parola centro in politica può essere variamente declinata.
Può indicare una collocazione equidistante dalle estreme, può caratterizzare un orientamento programmatico basato su un riformismo gradualistico e prudente che non ambisce a grandi cambiamenti, può identificare un metodo equilibrato con cui affrontare anche grandi riforme, può prefigurare solo un posizionamento tattico centrale nello scacchiere politico con la propensione a formare alleanze di volta in volta convenienti.
Per come conosciamo Renzi, lui è tutto fuorché un moderato.
Non lo è nel linguaggio, perché il suo eloquio è tagliente, aspramente polemico e poco accomodante.
Non lo è nei programmi, perché Renzi si è svenato ed è stato sconfitto sulla più grande operazione di cambiamento costituzionale dell’Italia.
Non lo è nel metodo, perché Renzi è abilissimo nelle azioni di rottura nei confronti di alleati e avversari con una forte di dose di spregiudicatezza e di tatticismo esasperato.
Tutto questo non significa, però, che Renzi non possa costituire il punto di riferimento di una vasta -e disorientata- area politica che è in cerca di casa perché in fuga da questa o quella formazione politica, per delusione o esclusione.
Sulla carta, in questo “centrone” renziano potrebbero confluire:
- delusi dalla sinistra tradizionale, ingessata e priva di guizzi riformisti;
- delusi da Forza Italia, ormai ridotta all’ombra di sé stessa;
- reduci di vari spezzoni di ex partiti della prima repubblica, socialisti, democristiani, repubblicani, liberali che da tempo si sentivano degli apolidi nella seconda Repubblica;
- elettori delusi da tutti i partiti, stufi di astenersi e desiderosi di scommettere su una nuova carta senza azzardare troppo;
- cittadini desiderosi di impegnarsi in politica ma finora poco motivati dalle offerte politiche sul campo;
- i soliti opportunisti e trasformisti che saliranno su un carro che promette di essere vincente.
Renzi dovrà saper coagulare questo pot-pourri politico, magari evitando di imbarcare troppi opportunisti.
Come possa riuscire in questa impresa non possiamo immaginarlo.
Certo avendo deciso di fondare un partito servendosi di una base parlamentare esistente sicuramente Renzi non ha rischiato nulla: il suo non è un partito che si presenta alle elezioni e cerca voti; è un partito che nasce nel Parlamento e aggrega eletti.
Inoltre, il partito di Renzi è avvantaggiato dal fatto di far parte di una maggioranza di governo – in cui ha due ministeri e altri sottosegretariati – senza esserne stato soggetto contraente dell’accordo di Governo. E si capisce che Conte possa essere imbarazzato di trovarsi dalla sera alla mattina presidente del Consiglio di una coalizione non più di due ma di tre partiti….
Insomma, Renzi parte sul sicuro e ha il vantaggio di chi si candida ad occupare uno spazio politico oggi non presidiato e che Giuseppe Conte stava appena immaginando di poter rappresentare.
Qui finiscono i vantaggi e cominciano le vere difficoltà di Renzi.
Da rottamatore e guastatore deve diventare tessitore e aggregatore: con quel caratteraccio ce la farà?
Da leader politico sonoramente sconfitto al referendum costituzionale su cui si era giocato tutto deve dimostrarsi capace di tornare ad essere leader vincente: ma sarà capace di trovare un modo diverso da quello usato dal primo Renzi che nel 2013 irruppe nella scena del Pd come un uragano?
Da abile parlatore tagliente deve riuscire distinguersi da altri concorrenti esperti in demagogia e populismo come Salvini (e Di Maio): resisterà alla tentazione di restare sul terreno dell’invettiva e della battuta facile su cui Salvini ha sicuramente meno freni inibitori di lui?
E infine: saprà delineare una visione strategica e non tattica dell’Italia che sia coraggiosa ma non massimalista, che punti a risolvere i problemi e non a gettare fumo negli occhi che raccolga il meglio delle tradizioni delle culture politiche della Prima Repubblica e sappia armonizzarle e rinnovarle adeguandole ai tempi per evitare che ogni componente del “centrone” tiri la fune dalla sua parte?
E, per ultimo, vorrà mettere la sua legittima ambizione personale al servizio del Paese sapendo che questo comporta spesso mettere il proprio Ego in secondo piano rispetto alla responsabilità delle scelte per il bene comune?