“La mia parola contro la sua” è l’undicesimo libro in concorso dell’edizione 2021 del Premio IusArteLibri.
Gli interventi dei relatori avv. Vincenzo Comi, dell’avv. Saveria Mobrici, dell’avv. Giuseppe Belcastro, e del magistrato Letizia Golfieri hanno consentito al pubblico di prendere consapevolezza della impellente necessità di una rivoluzione linguistica.
Il magistrato, Paola Di Nicola, attualmente membro della Commissione parlamentare di inchiesta sul Femminicidio, è una scrittrice spietata. Non ha alcun timore di “stancare le parole” . Sceglie un lessico scevro da tecnicismi giuridici, scende nelle storie delle donne che “costituite parte civili” si sono sentite parti escluse, emarginate dal processo incardinato solo grazie al loro coraggio di denunciare.
La misoginia non è una questione di genere ma è un bias cognitivo culturale?
Ogni forma di odio, di discriminazione ha alla sua radice un tabù, un habitus mentale che il contesto sociale non riesce a sradicare.
Basti pensare che solo a maggio 2021 abbiamo avuto la prima sentenza della Corte Europea per i diritti umani che ha condannato l’Italia per violazione degli obblighi positivi derivanti dal diritto al rispetto della vita privata e familiare.
E’ una sentenza storica perché è la prima volta che una Corte sovranazionale europea condanna uno Stato per avere espresso, tramite i propri giudici, pregiudizi sessisti che costituiscono una delle cause del mancato efficace contrasto alla violenza maschile contro le donne.
“Le parole sono stanche e noi siamo stanchi di parole”è il titolo di libro di Don Tonino Palmese che lei ama molto. Perché scrivere se le parole stancano?
Il linguaggio di per sé esprime una cultura, una visione. Ecco perché nel linguaggio dei processi, delle narrazioni di violenze contro le donne è essenziale che l’autorità giudiziari eviti di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni, minimizzi la violenza di genere ed esponga le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando osservazioni colpevolizzante e moralizzatrici volte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia.
Corriamo il rischio di essere sessisti anche nei confronti dell’imputato?
Certo, spesso la vittima del processo non coincide con la persona offesa dal reato ed ancora più spesso è l’imputato stesso a restare vittima del processo.
Il mio libro non è un appello femminista o la pretesa di una declinazione femminista del linguaggio, ma è il tentativo di rimettere le parole delle donne o usate nei confronti delle donne sullo stesso piano di quelle degli uomini. La pari dignità del lessico corrisponde alla pari dignità del pensiero.
Uno dei capitoli del libro inizia con “Cari uomini,c’è bisogno di voi….
Non basta la sola forza delle donne e della rete femminile. Occorrono le parole, i gesti, le scelte degli uomini. La sentenza della CEDU pone l’accento sul lavoro di noi magistrati, partendo dalla sostanza stessa della nostra imparzialità. Ci si chiede se le nostre pronunce perpetuino inconsapevoli stereotipi contro le donne superando i fatti e affidandoci ai nostri soggettivi punti di vista.