La vicenda delle violenze ai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere è l’ultimo di molteplici episodi di piccoli e grandi soprusi attribuiti alle forze dell’ordine.
Lungi dall’esprimere condanne o assoluzioni aprioristiche verso i presunti autori di fatti che la cronaca descrive come crimini aberranti, richiamo l’episodio unicamente per avviare da esso un ragionamento sulle posizioni automaticamente, ed a volte ottusamente, assunte dalle contrapposte fazioni politiche e per cercare di capire quale sia la forza dello Stato.
Fatti come quelli di Santa Maria Capua a Vetere determinano. ogni volta, un copione già visto nel quale la politica – o forse più esattamente la dialettica partitica ed elettorale, perché di “politica” se ne vede pochissima – assume posizioni preconcette.
Con una semplificazione assolutamente irreale si dividono nettamente i buoni dai cattivi, qualificandoli come tali non in base all’analisi dei fatti ed alla specifica fattispecie, ma per il loro ruolo: in tale schema non c’è alcuna distinzione tra destra e sinistra
Da un settore politico, difatti, si urla di essere “dalla parte dello Stato, sempre”, incondizionatamente, quindi, dalla parte degli agenti, anche di fronte ad evidenze assolute e anche oltre le eventuali condanne.
Dalla parte opposta – per carità sempre dichiarando il massimo rispetto e stima per l’autorità pubblica di volta in volta coinvolta – quasi una pronta condanna per i soggetti singolarmente coinvolti e con la richiesta che quella istituzione, per definizione sana (e magari non lo è: un esame del sangue sarebbe magari opportuno), sappia fare pulizia al suo interno, espellendo le mele marce.
Con una serie di incongruenze considerevoli, da una parte e dall’altra, che solamente un pregiudizio ideologico non consente di notare.
Il punto su cui vorrei soffermarmi a riflettere, però, non è tanto nell’analisi delle contrapposte reazioni ai medesimi fatti, quanto la suggestione che ho sempre istintivamente avuto che, ogni qual volta lo Stato abusi del proprio potere – anche semplicemente difendendo o addirittura “coprendo” i suoi agenti che siano andarti oltre i limiti della legge – non dimostri forza, ma debolezza.
Un’idea debole dello Stato viene dimostrata ogni qualvolta si dia l’incondizionata approvazione dell’operato delle forze dell’ordine, spesso nonostante accertamenti giudiziari difficili da digerire (il caso Cucchi ne è un esempio considerevole). Oppure, allorché si spinga il plauso ad azioni di polizia magari di paesi esteri, si sorvoli sui 9 minuti e 29 secondi del ginocchio premuto sul collo di George Floyd (e sui ventidue anni di condanna inflitti velocemente dal sistema giudiziario americano), plaudendo comunque ad un abuso della forza ritenuto necessario per il mantenimento dell’ordine pubblico.
Perché l’idea che vorrei esprimere è che lo Stato, nei casi citati, abbia dimostrato molto di più la sua forza individuando e punendo chi abbia abusato del suo potere e della posizione rivestita nel potere e nella soggezione nella quale si trovino le persone con cui interloquiscono.
Il problema è sempre qui: il rispetto dei diritti e l’invalicabilità di una serie di limiti legali, addirittura nei confronti di mostri accertati; persino nei confronti di detenuti.
Lo Stato non cerca punizioni o vendette, che attengono alla sfera dei sentimenti personali, ma amministra la giustizia, nei limiti della Costituzione e con le leggi che s’è dato.
La sua forza sta proprio in questo, nel diritto, nella capacità di rispettarlo e di non abusarne.
Ogni qual volta lo Stato ignora ciò dimostra debolezza e perde dignità.
Senza andare lontano nel tempo (almeno per quelli della mia età: andando in epoca protozoica per i ventenni di oggi) lo Stato italiano ha progressivamente perso dignità e forza proprio nel ventennio fascista, momento nel quale la sua potenza voleva essere esaltata. Lo ha fatto con una serie progressiva di abusi di poteri: dall’esilio cui ha costretto molti intellettuali non allineati; al delitto Matteotti; a leggi che erano fuori dal diritto, come quelle sugli ebrei, che hanno stabilito la fine del regime ben prima della sconfitta bellica.
La mancanza di autonomia della magistratura dell’epoca, soggetta al potere, ha determinato la sciagura.
Oggi abbiamo una magistratura autonoma dal potere: anche troppo, suggerisce qualcuno, ritenendo che essa non si limiti alla giurisdizione, ma che condizioni sia il potere esecutivo che quello legislativo.
La magistratura è e deve essere l’autentica espressione di forza dello Stato.
L’individuo è pari di fronte allo Stato ed è il giudice che valuta i conflitti tra di loro in maniera imparziale e che accerta e sancisce le violazioni che costituiscono reato: e che deve essere così forte da poter dare torto allo Stato o di rifiutarne accuse che non siano suffragate da prove certissime.
La magistratura nel momento attuale è in forte crisi ed ha problemi al suo interno che deve risolvere da sola, perché nessuno, se non la legge, ha autorità su di essa.
Elementi di crisi emersi ben prima del caso Palamara, che li ha resi evidenti, e che hanno fatto perdere progressivamente quel consenso popolare che era sorto con “mani pulite”, quando si sono perseguiti non tanto i singoli, ma una deviazione che era diventata “sistema”: così come “sistema” sembrerebbero essere diventati, proprio in relazione alla stessa magistratura, comportamenti eticamente dubbi, resi pubblici.
Ciò che essa fa ed ha fatto nei confronti di altri non riesce a fare con sé stessa e, pur di non ammettere una crisi ed una necessità di intervento, sta cadendo nel ridicolo riducendo solamente al capro espiatorio Palamara tutto ciò che in essa non funziona.
Io credo in una magistratura con la forza della legge: e l’istituzione, per rispetto non solamente di sé stessa, ma di tutti i cittadini, ma anche perché lo Stato possa nuovamente affermare la sua forza che sta tutta nella legalità, deve trovare in sé la capacità di una profonda mutazione che, al momento, neppure viene teorizzata.