Nelle fasi di crisi acuta emergono pregi e difetti più nascosti. E la pandemia ha confermato che l’Italia è un Paese che dà il meglio di sé quando è sotto pressione mentre, quando si rilassa, si lascia andare, spreca i propri talenti e si fa del male.
A metà marzo, quando il virus ha cominciato a mietere vittime c’è stata una reazione corale fortissima. Come se tutti fossero stati “chiamati alle armi”, gli italiani non ci hanno pensato due volte e si sono messi, spesso a mani nude, a lottare contro un nemico oscuro e feroce.
Lo hanno fatto, innanzitutto, medici e personale sanitario in prima linea. Hanno sfidato la morte e alcuni di loro hanno pagato con la vita questa scelta, hanno lavorato senza tregua, per giorni interi e senza mezzi di protezione adeguati a curare il maggior numero di malati, hanno comprato a spese loro strumenti che il servizio sanitario non metteva a loro disposizione.
In tutti i settori della vita pubblica e privata ci siamo sentiti mobilitati a “fare qualcosa” per fronteggiare il “male”. Dalle piccole donazioni della gente comune a quelle milionarie di grandi imprenditori, dall’aiuto prestato ai vicini in difficoltà alle mobilitazioni collettive per raccogliere beni di prima necessità per gli indigenti.
Abbiamo reagito alla depressione cantando dai balconi, giocando a tennis dai terrazzi, mettendo in rete musiche, concerti a distanza, esibizioni artistiche, dando vita a webinar e chat collettive per sentirci più uniti nonostante le distanze forzate.
Abbiamo cercato di esorcizzare il virus sbattendogli in faccia la nostra creatività, gli sberleffi della nostra indomita volontà di non arrenderci, andando a rovistare nella nostra memoria storica per ritrovare i numerosi casi in cui abbiamo “vinto” contro avversari o nemici che sembravano imbattibili.
Tutta questa esplosione di energia ha avuto il suo effetto. Ci ha fatto ridurre al minimo il peso psicologico di due mesi di “clausura” stretta, ha messo in moto azioni di emergenza che hanno fatto aumentare come d’incanto la dotazione di mezzi della sanità pubblica, tante aziende si sono riconvertite per produrre le mascherine introvabili.
La politica ci ha messo del suo creando organismi capaci di prendere in pochi minuti quelle decisioni che in condizioni abituali richiedono mesi o anni. Il risultato è stato positivo: la prima battaglia contro il virus era stata vinta. A metà maggio si cominciavano a vedere i primi segnali incoraggianti e dopo un mese tutto era ripreso con quasi normalità. Certo il prezzo in termini di vite umane è stato enorme, le scuole sono rimaste chiuse, l’economia ha subito una strozzatura mai vista. Siamo riusciti perfino a farci ascoltare in Europa e ad ottenere prestiti e aiuti impensabili fino a qualche settimana prima. E, come ciliegina sulla torta, siamo stati gratificati dal riconoscimento unanime che il “modello italiano” di contrasto alla pandemia era stato il migliore, un esempio da imitare. Tutto questo ci ha inorgoglito e doveva darci una spinta in più verso la resilienza.
E invece è cominciato il rilassamento. In parte giustificato, dopo mesi di tensione, ma esagerato nella sua dimensione. Abbiamo confuso una battaglia con una guerra. E a questo hanno contribuito anche dichiarazioni di autorevoli medici che, nella forma più che nella sostanza, hanno finito per alimentare l’idea del “liberi tutti”. Questo erroneo senso di scampato pericolo ha avuto effetto sia nel dilagare di comportamenti irresponsabili di tanti, non solo giovani, sia nelle decisioni della politica e di chi gestisce la sanità.
Si sono allentate le misure di precauzione, i controlli sono scomparsi, si sono fermate le macchine che potevano rafforzare la sanità pubblica in vista della seconda ondata e addirittura sono stati dati incentivi a chi chiudeva i reparti di terapia intensiva. Dalla saggezza di marzo alla follia di luglio e agosto.
Per l’ennesima volta il rilassamento eccessivo ci ha fatto quasi del tutto sprecare i risultati ottenuti a caro prezzo nella fase dell’emergenza. E adesso siamo di nuovo costretti ad adottare misure severe.
Alcuni traumi dovrebbero contribuire a migliorare il “carattere sociale” di un popolo. Speriamo che questa volta la lezione sia stata chiara: dobbiamo imparare a comportarci con rigore, serietà e forza sempre, non solo quando divampa la battaglia e ci sentiamo in pericolo. Il vero pericolo per noi italiani è questo nostro crogiolarci sulle vittorie momentanee, lasciarci andare convinti di averla sfangata e di essere più bravi degli altri per diritto naturale. Non è così. Non dobbiamo essere costretti a sentirci perennemente in emergenza per dare il meglio di noi stessi. Impariamo a vivere la normalità come una cosa seria e non una barzelletta, senza ansie e paure ma anche senza superficialità e ridicola strafottenza. E questo vale soprattutto per le classi dirigenti, che, come loro dovere, devono dare il buon esempio.