Il Myanmar si prepara a tornare alle urne per la prima volta dal colpo di Stato del 2021, con elezioni generali previste in tre fasi tra il 28 dicembre 2025 e il 25 gennaio 2026. La giunta militare, guidata dal generale Min Aung Hlaing, ha annunciato il voto come segno di “normalizzazione democratica”, ma le critiche internazionali e interne si moltiplicano: per molti osservatori si tratta di una “farsa elettorale” orchestrata per legittimare il potere del Tatmadaw, le forze armate del Paese. La Commissione elettorale, nominata direttamente dalla giunta, ha escluso dalle liste oltre tre milioni di cittadini, tra cui sfollati e membri di minoranze etniche, e ha bandito la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Kyi, vincitore delle elezioni del 2020 prima del golpe. Le sanzioni previste per chi ostacola il voto includono pene detentive e, in alcuni casi, la pena capitale. Nel frattempo, il Paese è ancora attraversato da una guerra civile che coinvolge milizie etniche e gruppi di resistenza, con bombardamenti quotidiani nelle regioni contese. La giunta ha intensificato le operazioni militari per riconquistare territori e garantire una base elettorale più ampia. Secondo fonti locali, la Cina avrebbe spinto per la convocazione del voto, inviando osservatori per monitorare le operazioni e favorire un riconoscimento internazionale del regime. La popolazione civile resta la principale vittima di questo scenario: tra sfollamenti, crisi umanitaria e repressione, il clima elettorale è segnato dalla paura e dalla sfiducia. Il Movimento di Disobbedienza Civile e il Governo di Unità Nazionale in esilio hanno invitato al boicottaggio, denunciando la mancanza di condizioni minime per un voto libero. Il Myanmar si avvia così a un appuntamento elettorale che, più che aprire una nuova fase democratica, rischia di consolidare un potere militare sempre più isolato e contestato.



