L’Australia si prepara a una nuova fase di operazioni antiterrorismo dopo l’attentato di Bondi, che ha riacceso timori e tensioni in un Paese già segnato da episodi di radicalizzazione isolata. Le autorità federali hanno confermato che una serie di raid mirati è “imminente”, con l’obiettivo di individuare eventuali complici, reti di supporto e figure sospette che potrebbero aver agevolato l’attacco o pianificato azioni simili. Il governo ha intensificato il coordinamento tra polizia federale, intelligence e unità speciali, mentre cresce la pressione sulle comunità religiose e civiche affinché collaborino nel monitoraggio di segnali di estremismo. In questo contesto si inserisce l’appello, destinato a far discutere, rivolto ai leader ebraici, invitati a “cooperare attivamente” nel segnalare comportamenti radicali o retoriche violente che possano emergere all’interno delle rispettive comunità o nei loro ambienti di riferimento. La richiesta, formulata da esponenti della sicurezza nazionale, ha suscitato reazioni contrastanti. Alcuni rappresentanti ebraici hanno ribadito la piena disponibilità a collaborare con le autorità, come già avviene da anni, ma hanno espresso preoccupazione per il rischio di stigmatizzazione e per la possibilità che un linguaggio troppo diretto alimenti tensioni interreligiose. Altri osservatori sottolineano che l’estremismo, in Australia come altrove, non è circoscritto a un’unica comunità e richiede un approccio equilibrato e multilaterale. Intanto, a Bondi e nelle aree circostanti, la presenza delle forze dell’ordine resta elevata. Le indagini proseguono su più fronti: dall’analisi dei dispositivi elettronici dell’attentatore alla ricostruzione dei suoi ultimi movimenti, fino alla verifica di eventuali contatti con gruppi radicali online. Le autorità insistono sul fatto che non vi siano prove di una minaccia coordinata su larga scala, ma riconoscono che il clima rimane teso.



