Il cessate il fuoco in vigore nella Striscia di Gaza continua a reggere a fatica, mentre la diplomazia internazionale tenta di sbloccare la seconda fase del piano promosso dagli Stati Uniti. L’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha incontrato a Miami i rappresentanti di Qatar, Egitto e Turchia, Paesi mediatori dell’accordo, per discutere i prossimi passaggi del processo che dovrebbe portare al disarmo di Hamas, al ritiro graduale delle forze israeliane e all’istituzione di un’autorità di transizione sostenuta da una forza internazionale. Hamas guarda ai colloqui con aspettative elevate ma anche con diffidenza. Un alto esponente del movimento, Bassem Naïm, ha chiesto che i negoziati portino alla fine delle “violazioni israeliane” della tregua, in particolare sul fronte dell’ingresso degli aiuti, dell’apertura del valico di Rafah e dell’arrivo dei materiali necessari alla ricostruzione. Secondo il ministero della Salute di Gaza, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco almeno 395 palestinesi sarebbero stati uccisi dai colpi israeliani, mentre anche tre soldati israeliani hanno perso la vita. In questo quadro, sul piano politico e militare, Washington continua a lavorare alla creazione di una forza di sicurezza internazionale. Il segretario di Stato Marco Rubio si è detto fiducioso che diversi Paesi contribuiranno con truppe, e avrebbe chiesto all’Etiopia di partecipare alla missione. Anche l’Italia ha confermato la propria disponibilità, con il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha indicato un possibile contributo dei Carabinieri per l’addestramento delle future forze di polizia palestinesi.
Gaza tra raid e crisi umanitaria
Sul terreno, intanto, la situazione resta tesa. All’alba di ieri l’aviazione israeliana ha colpito diverse aree del sud della Striscia, tra Khan Younis e Rafah, uccidendo almeno quattro civili, secondo l’agenzia palestinese Wafa. L’esercito israeliano ha inoltre confermato l’uccisione di un palestinese che avrebbe attraversato la cosiddetta Linea Gialla, ritenuto una minaccia. Come ogni venerdì, Israele ha chiuso i valichi di Kerem Abu Salem e Al Awja, bloccando temporaneamente il transito degli aiuti umanitari, una pratica che continua a sollevare proteste da parte delle organizzazioni internazionali. Il quadro umanitario rimane drammatico. L’Organizzazione mondiale della sanità ha reso noto che oltre 1.090 pazienti sono morti tra luglio 2024 e fine novembre 2025 in attesa di evacuazione medica, una cifra definita probabilmente sottostimata. Il Global Hunger Monitor ha escluso formalmente lo stato di carestia, ma ha avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità o di nuove interruzioni degli aiuti, l’intera Striscia rischia di precipitare nuovamente nella fame entro la primavera del 2026. In questo contesto si inserisce la visita del cardinale Pierbattista Pizzaballa a Gaza, dove ha incontrato la comunità cristiana della parrocchia della Sacra Famiglia. “Ricostruiremo tutto, le scuole, le case, la nostra vita”, ha detto il Patriarca di Gerusalemme, sottolineando la volontà delle comunità cristiane di restare radicate nel territorio e di partecipare alla ricostruzione materiale e morale dell’enclave.
Tensioni regionali
Parallelamente, Israele e Libano hanno tenuto un nuovo incontro diretto a Naqoura, sotto l’egida di Stati Uniti e Francia, per discutere il disarmo di Hezbollah e il mantenimento della tregua lungo il confine meridionale. Sullo sfondo resta alta la tensione regionale, con Teheran che accusa Israele di voler consolidare l’occupazione in Siria, mentre Damasco ha accolto con favore la revoca definitiva delle sanzioni statunitensi, vista come un passo decisivo verso la ricostruzione dopo tredici anni di guerra civile. In Yemen, infine, l’Onu ha denunciato l’arresto di dieci dipendenti locali da parte dei ribelli Houthi, portando a 69 il numero totale dei funzionari delle Nazioni Unite detenuti nel Paese, in un ulteriore segnale della fragilità degli equilibri regionali in Medio Oriente.



