Il giorno in cui smettono di morire

La biologia contemporanea sfida l'idea che l'invecchiamento sia un destino universale: è una caratteristica manipolabile, non una legge cosmica. Dalla riparazione continua del corpo alla possibilità di preservare la coscienza esternamente, la morte si ritrae. Ma la sfida non è sconfiggere la morte, quanto capire come cambieremo quando potremo sfidarla
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Ci sono domande che non appartengono davvero al presente. Sono domande che sembrano scivolare attraverso i secoli, cambiando voce, ma non sostanza. La domanda sull’immortalità è una di queste. Non nasce dal bisogno di sapere come moriremo o quando, ma dal bisogno più antico e più irrisolto di capire se la fine sia davvero parte essenziale dell’essere umano, oppure solo una conseguenza tecnica di un apparato biologico imperfetto.

Per la maggior parte della storia, l’invecchiamento è stato visto come una forza misteriosa, quasi metafisica: una legge incisa nella carne, simile alla gravità. Ma la biologia contemporanea ha incrinato questa percezione. Ci sono creature che non invecchiano, che rinnovano se stesse in un ciclo apparentemente infinito. Alcune meduse regrediscono allo stadio infantile e ricominciano e certe cellule esistono in laboratorio da decenni, proliferando senza tregua. Questi organismi non ci offrono una ricetta per l’eternità, ma indicano che la mortalità per invecchiamento non è un destino universale: è una caratteristica evolutiva, non una necessità cosmica.

Da questo punto nasce il vero cambio di prospettiva: se l’invecchiamento non è una legge dell’universo, allora è teoricamente manipolabile. E se è manipolabile, può essere rallentato, fermato, forse persino invertito. La medicina, la genetica e l’ingegneria dei sistemi biologici si stanno muovendo lentamente, ma con decisione verso l’idea che il corpo non sia un monumento destinato a sgretolarsi, bensì un insieme di processi che possono essere ripristinati. È un’idea che fino a pochi decenni fa sarebbe sembrata pura fantasia, oggi è una frontiera di ricerca con la stessa serietà che un tempo avevano i primi esperimenti di volo.

Il futuro, però, non si limita a immaginare un corpo che non invecchia. Spinge più lontano, fino alla possibilità che la mente possa essere separata dal corpo o, almeno, sostenuta, amplificata, preservata attraverso strumenti esterni. La sopravvivenza dell’identità, in una forma diversa, è un tema che attraversa tanto la fantascienza quanto la filosofia della mente: siamo la nostra biologia o siamo l’informazione che la biologia ospita? Se un giorno riuscissimo a mappare completamente il funzionamento della coscienza, a trascrivere la trama unica dei nostri ricordi, delle nostre inclinazioni, delle nostre contraddizioni, sarebbe davvero un sacrilegio immaginare che questa trama possa essere conservata anche quando il corpo non c’è più? E soprattutto: sarebbe ancora “noi”, oppure qualcosa che ci somiglia infinitamente, ma non coincide con ciò che proviamo a chiamare io?

In questo possibile futuro la morte non svanisce in un colpo solo. Si ritrae. Diventa un’ombra più distante, una possibilità statistica, quasi un incidente. Il corpo potrebbe durare più a lungo grazie alla riparazione continua. La mente potrebbe essere sostenuta da intelligenze esterne. L’identità potrebbe sfidare la materia stessa. Ma l’idea di eliminare completamente la morte resta, probabilmente, un’illusione metafisica: l’universo non promette eternità. L’entropia consuma, anche se lo fa più lentamente. E anche l’individuo più protetto, il corpo più riparabile, rimane esposto alla fragilità del caso, agli imprevisti, ai limiti della fisica. C’è poi una questione più sottile, che raramente emerge nei discorsi tecnici: cosa diventerebbe una società in cui si muore molto meno, o quasi per nulla? La nostra civiltà è costruita sull’idea che il tempo è finito, che l’esistenza ha una forma perché ha un limite. Le scelte hanno peso perché la vita è limitata. Le generazioni si alternano perché nessuno resta troppo a lungo. Se l’immortalità, o qualcosa che le assomiglia, diventasse accessibile, cambierebbero la famiglia, il potere, la ricchezza, la capacità di rinnovare il pensiero. Potremmo diventare una civiltà stagnante, o una capace di creare forme di vita e cultura oggi inimmaginabili. Dipenderebbe non dalla tecnologia, ma dal carattere collettivo.

Forse, dunque, la domanda corretta non è se un giorno sconfiggeremo la morte, ma come cambieremo quando saremo in grado di sfidarla. È possibile che il superamento dell’invecchiamento ci appaia meno come una vittoria e più come una responsabilità. È possibile che la longevità indefinita diventi una condizione che pochi sceglieranno davvero. Perché la vita non è solo una somma di anni, ma un’architettura che trova nel limite la sua forma naturale. E togliere il limite significa riscrivere il senso di tutto.

Il futuro, in questo senso, non è mai puro trionfo o pura catastrofe: è un nuovo equilibrio da costruire. Se un giorno l’umanità riuscirà a rendere la morte un evento raro, quasi accidentale, non sapremo dire di averla “sconfitta”. Sapremo solo di aver varcato una soglia antica, di esserci affacciati su un territorio in cui la domanda stessa — vivere per sempre — diventa meno importante della successiva: che cosa rende degna una vita che potrebbe non finire mai?

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