Durante la COP30 in corso a Belém, Brasile, migliaia di rappresentanti dei popoli indigeni amazzonici hanno dato vita a una protesta storica contro lo sfruttamento ambientale e l’esclusione dai processi decisionali globali. Lo slogan scandito con forza — “La nostra terra non è in vendita” — è diventato il simbolo di una resistenza che chiede ascolto, rispetto e giustizia climatica. La manifestazione, iniziata con una marcia pacifica, è degenerata in disordini quando alcuni manifestanti hanno cercato di superare le barriere di sicurezza per accedere alla sede ONU. Le forze dell’ordine hanno reagito con fermezza, generando momenti di tensione e scontri fisici. Nonostante ciò, il messaggio è arrivato forte e chiaro: i popoli originari vogliono essere protagonisti nella difesa dell’Amazzonia, non spettatori marginali. Tra i leader presenti, il capo Raoni Metuktire del popolo Kayapó ha dichiarato: “Gli uomini bianchi devono rispettare l’Amazzonia. Non siamo qui per folklore, ma per salvare il pianeta”. La “flotilla indigena”, una carovana di barche partita dalle profondità della foresta, ha portato a Belém oltre 5.000 persone, in un viaggio epico che ha attraversato fiumi e territori minacciati. Il governo brasiliano, per voce del presidente Lula, ha promesso “la più grande partecipazione indigena nella storia delle conferenze sul clima” e ha ribadito l’impegno a proteggere i territori ancestrali. Tuttavia, le ONG denunciano ritardi nell’attuazione delle promesse e chiedono misure concrete contro deforestazione, estrattivismo e violazioni dei diritti umani. La COP30 si conferma così non solo come vertice tecnico, ma come palcoscenico di una battaglia morale e politica. I popoli indigeni, custodi di saperi millenari e di ecosistemi vitali, chiedono di essere riconosciuti come alleati strategici nella lotta al cambiamento climatico. E il mondo, almeno per un giorno, ha ascoltato il loro grido.



