In Sicilia chiedere un prestito a una banca, per una microimpresa, somiglia sempre più a una corsa a ostacoli. Le percentuali parlano chiaro: quasi una richiesta su quattro viene respinta. A lanciare l’allarme è Gabriele Urzì, dirigente nazionale Fabi e responsabile salute e sicurezza Fabi Palermo, che descrive un quadro di vera e propria emergenza economica e sociale. “Le microimprese, cuore pulsante dell’economia isolana, vedono le loro richieste respinte nel 22,8% dei casi, contro una media nazionale del 13,5%. Solo il 27% delle aziende siciliane ha ottenuto un finanziamento nell’ultimo anno”, denuncia Urzì.
Numeri che, tradotti nella vita quotidiana, significano fatture che non si riesce a pagare, investimenti rinviati, stipendi a rischio. «Sono dati che raccontano un deserto di opportunità, dove la liquidità diventa un miraggio e la sopravvivenza quotidiana un’impresa titanica», aggiunge il sindacalista.
Dove si ritira lo Stato avanza la mafia
In questo vuoto di credito legale, a muoversi con determinazione è il capitale illegale. “È evidente che dove lo Stato e il sistema bancario arretrano, la mafia avanza”, avverte Urzì. La Direzione Investigativa Antimafia lo sottolinea da tempo: le organizzazioni criminali hanno cambiato pelle. Niente più solo intimidazioni e minacce plateali, ma una strategia di infiltrazione silenziosa. “Cosa nostra e le altre organizzazioni criminali non hanno più bisogno di intimidire con le armi – ricorda Urzì – ma oggi investono, assumono e corrompono, offrendo denaro fresco a chi non ha alternative”.
Nel 2024 la Dia ha sequestrato beni per 93,4 milioni di euro e confiscato patrimoni per 159,9 milioni, segno di un potere economico che si insinua nei settori edilizio, turistico e agroalimentare, proprio dove le imprese sono spesso piccole, fragili e bisognose di liquidità immediata.
“Un prestito che non puoi rifiutare”
Anche la Banca d’Italia, attraverso l’Unità di Informazione Finanziaria, ha analizzato il fenomeno con un titolo che suona come un monito: “Un prestito che non puoi rifiutare”. L’idea è semplice e inquietante: quando le banche chiudono i rubinetti, le imprese diventano terreno fertile per il denaro mafioso. Gli studi citati da Urzì spiegano che: un declassamento del rating creditizio a livello substandard riduce la disponibilità di credito di oltre il 30% in cinque anni; nello stesso tempo aumenta la probabilità di infiltrazione mafiosa del 5%, che può arrivare fino al 10% nel settore immobiliare.
È in questo spazio che nascono le cosiddette ‘aziende zombie’: realtà formalmente in vita, con bilanci e attività apparenti, ma in realtà controllate dalla criminalità organizzata, che le utilizza per riciclare denaro, fatturare operazioni fittizie, consolidare il proprio potere. Paradossalmente, osservano gli studi, le imprese infiltrate presentano tassi di sopravvivenza più elevati rispetto ad altre aziende declassate ma non colluse: un apparente “successo” che però si regge sulla stampella criminale, non su basi economiche sane.
Un’emergenza economica
Il rischio non si esaurisce sul piano finanziario. Per Urzì, la questione è economica, sociale, culturale, democratica: “Ogni prestito mafioso è un cappio che stringe l’imprenditore, lo priva della libertà di scelta e lo trasforma in un ingranaggio del sistema criminale. Ogni azienda collusa altera la concorrenza, penalizza chi lavora onestamente e mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”.
In una regione come la Sicilia, che resta una terra di straordinarie risorse e potenzialità, il rischio è quello di diventare ostaggio di un credito parallelo: un sistema finanziario oscuro, “che non conosce regole né trasparenza. Un credito – avverte Urzì – che non sostiene lo sviluppo, ma lo piega agli interessi di chi vive nell’illegalità”.
La sfida
Le conclusioni hanno il peso di un avvertimento alle istituzioni e al sistema bancario:
“Durante le crisi economiche, garantire l’accesso al credito alle imprese sane ma finanziariamente vulnerabili è fondamentale per evitare che diventino bersaglio della criminalità organizzata”, si legge nello studio richiamato da Urzì.
La sfida, dunque, è costruire strumenti di finanziamento alternativi, rapidi, trasparenti, capaci di raggiungere le microimprese prima che lo facciano gli emissari dei clan. “Se lo Stato e le banche non troveranno strumenti alternativi e facilmente fruibili per garantire liquidità alle imprese – avverte Urzì – la mafia continuerà a colmare il vuoto. E ogni euro prestato dalla criminalità sarà un mattone in più nel muro che separa la Sicilia dalla sua libertà economica e sociale”.



