Quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato fino al 6 giugno per onorare le richieste del fisco. Solo dal giorno successivo potranno dedicare il proprio reddito a sé stessi e alle proprie famiglie. È il calcolo elaborato dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, che con un esercizio di “contabilità sociale” misura il peso delle tasse in Italia: 156 giorni spesi per finanziare servizi pubblici, stipendi della Pubblica amministrazione, sanità, istruzione, trasporti e sicurezza. A rendere ancora più gravoso il carico fiscale per chi le tasse le paga c’è il fenomeno dell’economia sommersa. Secondo l’Istat, nel 2022 erano circa 2,5 milioni i lavoratori irregolari: uomini e donne senza contratto, o autonomi senza partita Iva.
In termini assoluti, la regione più colpita è la Lombardia (379.800 unità), seguita da Lazio (319.400) e Campania (270.200). Ma se si guarda al tasso di irregolarità, il primato spetta alla Calabria con il 17,1%, seguita da Campania (14,2%), Sicilia (13,6%) e Puglia (12,6%). La media italiana è del 9,7%.
L’andamento negli ultimi 30 anni
In altre parole, milioni di italiani non versano quanto dovuto, costringendo i contribuenti onesti a sopportare un peso maggiore.Guardando indietro, il carico fiscale non è sempre stato lo stesso. Nel 2005, sotto il governo Berlusconi, la pressione fiscale scese al 38,9% del Pil, il livello più basso degli ultimi trent’anni. All’epoca furono sufficienti 142 giorni per liberarsi dal ‘giogo fiscale’, due settimane in meno rispetto ad oggi. Il record negativo, invece, risale al 2013, durante l’esecutivo guidato da Mario Monti, quando la pressione fiscale toccò il 43,4% del Pil, massimo storico.
Questo confronto storico aiuta a capire come la politica economica possa incidere in modo diretto sul portafoglio dei cittadini. I periodi di riduzione del prelievo fiscale sono spesso coincisi con tentativi di rilancio dei consumi e degli investimenti privati, mentre i picchi sono arrivati in fasi di crisi o di risanamento dei conti pubblici. Però la costante degli ultimi decenni è che la pressione fiscale italiana non è mai scesa sotto la soglia del 38%, segnale di un apparato statale che, al netto delle riforme, continua a richiedere risorse molto elevate per funzionare.
Secondo il Documento di Economia e Finanza nel 2025 la pressione fiscale sarà del 42,7%, in lieve crescita rispetto al 2024. Ma il dato è influenzato da modifiche contabili: la decontribuzione per i lavoratori dipendenti è stata sostituita da un mix di sconti Irpef e bonus per i redditi bassi. Poiché il bonus viene registrato come spesa e non come minore entrata, il risultato ‘gonfia’ artificialmente la pressione fiscale. Considerando questa correzione, il livello effettivo si attesterebbe al 42,5%.
Nuove misure fiscali: impatto limitato
Negli ultimi due anni, inoltre, il rialzo non è stato legato a nuove tasse, quanto a fattori economici (rinnovi contrattuali, arretrati nel pubblico impiego, aumento dell’occupazione e delle retribuzioni) e alla crescita delle imposte sostitutive sui redditi da capitale.L’aumento delle tasse introdotto dal governo in carica è stato definito ‘modestissimo’. Tra i provvedimenti più rilevanti figurano l’incremento delle imposte su tabacchi e alcuni beni di consumo, la rimodulazione delle detrazioni per i redditi più alti, la tassazione più severa sulle cripto-attività e la riduzione degli incentivi per ristrutturazioni e risparmio energetico.
A livello europeo, l’Italia si colloca tra i Paesi con maggiore pressione fiscale. Nel 2024 il primato spetta alla Danimarca (45,4%), seguita da Francia (45,2%), Belgio (45,1%), Austria (44,8%) e Lussemburgo (43%). Con il suo 42,6%, l’Italia è al sesto posto, davanti a Germania (40,8%) e Spagna (37,2%). Solo la Francia, tra i grandi partner economici, è più tassata di noi.