Ben la rappresenta il suo ultimo album “Migration tales”, incentrato sulle storie di donne migranti negli Stati Uniti, prodotto dall’etichetta Endectomorph, in collaborazione con La Reserve. Ludovica Burtone è una artista che spazia con grande disinvoltura dalla musica colta alla Musica Popolare Brasiliana, fino a giungere al jazz in tutte le sue svariate declinazioni stilistiche. Grazie alle sue preziose qualità artistiche condivide il palco con numerosi musicisti di rango mondiale come Ron Carter, Jon Batiste, Melissa Aldana, Arijit Singh, Mary Halvorson, Dream Theater, solo per elencarne alcuni. Sabato 10 maggio, presenterà il suo disco alla Casa del Jazz di Roma, in quartetto con una sezione ritmica italiana formata da tre giovani e talentuosi musicisti: Vittorio Solimene (pianoforte), Riccardo Gola (contrabbasso) e Valerio Vantaggio (batteria). Un’ottima occasione per poter vedere dal vivo la performance di questa artista di Udine, che da un decennio vive a New York, per il grandissimo successo riscosso negli Stati Uniti. Prossima data, lunedì 12 maggio, al Palazzo San Sebastiano di Mantova, in cui la musicista sarà accompagnata da un valente trio composto da Andrea Goretti (pianoforte), Kaisa Maeinsivu (contrabbasso) e Davide Bussoleni (batteria).
Ludovica, ci può raccontare la genesi del disco e perché la tematica delle migrazioni la tocca così tanto?
Migration Tales nasce dal mio vissuto come donna immigrata negli Stati Uniti (da 13 anni), e dall’osservazione delle esperienze di chi mi circonda. Vivo a New York, in mezzo a persone provenienti da ogni parte del mondo, con passaporti, visti e privilegi molto diversi. Anche se il disco si concentra sulle storie di donne, cerco di parlare in realtà di tutti i migranti, di ciò che significa lasciare casa e reinventarsi. Ho cercato di uscire dalla mia cerchia più vicina, incontrando nuove persone per dei “coffee dates”, che sono diventati momenti di ascolto e ispirazione.
Nei brani affronta i temi dell’identità, del senso di appartenenza e della perdita. Quale aspetto è stato più felice e quale più difficile da mettere in musica?
L’aspetto più felice è stato sicuramente quello della connessione: trasformare in musica esperienze comuni, la musica come linguaggio che unisce voci diverse, anche quando parliamo lingue differenti. Sentire che certe emozioni, come il senso di appartenenza, o la nostalgia, sono condivise, è stato un processo umano gratificante. La parte più difficile forse è stata dare voce alla perdita. Alcuni brani nascono da momenti molto vulnerabili, da domande personali sull’identità, su cosa si lascia indietro, su cosa si perde per sempre.
È stata toccata anche lei da qualche perdita irreversibile?
Durante la lavorazione di Migration Tales ho attraversato un periodo molto difficile della mia vita personale, segnato da una perdita che, pur non essendo una morte in senso stretto, ha avuto un impatto devastante e irreversibile. La persona a me più vicina ha sofferto di quello che credo fosse una psicosi, o una grave malattia mentale, un evento che ha cambiato completamente la nostra realtà. È stato un crollo emotivo profondo, che mi ha costretta a confrontarmi con il dolore, la paura, la rabbia e un senso fortissimo di smarrimento. In quel momento, l’unico spazio in cui riuscivo ancora a respirare era la musica. Scrivere, suonare, registrare. Un modo per ritrovare me stessa, per trovare un senso anche nel caos. Questo progetto mi ha aiutata a dare forma al dolore, a trasformarlo, a condividerlo senza doverlo necessariamente spiegare. Questo progetto mi ha anche fatto scoprire di far parte di una comunità creativa molto forte, rivelandomi radici di cui non ero consapevole. La musica è stata una vera e propria terapia.
C’è un suo brano preferito?
Dipende dalla giornata, ma tra i miei preferiti ci sono “Is this Rage” e “Outside my window”, che sicuramente, anche a un primo ascolto, trasmettono due emozioni ben contrastanti!
Quanto si sente lei sospesa tra due mondi?
Mi sento costantemente sospesa tra due mondi. Da una parte c’è l’Europa, l’Italia, con le mie radici, la lingua, la famiglia, gli affetti. Dall’altra c’è New York, la città dove ho scelto di vivere, creare, reinventarmi. Questa sospensione a volte è una ricchezza, perché mi permette di vedere le cose da prospettive diverse, di sentirmi parte di più culture. Ma altre volte è dolorosa, perché porta con sé un senso di non appartenenza piena a nessun luogo.
Qual è lo stile musicale dominante di questo disco e perché lo ha scelto?
Migration Tales è un intreccio di jazz, musica contemporanea, influenze classiche ed elementi folklorici. Cerco la mia voce, non scelgo volontariamente uno stile preciso. C’è la pagina scritta, ma anche tanta improvvisazione e voglio dare spazio ai musicisti della mia band di “parlare la propria voce”. Per semplicità lo definisco “chamber jazz”, perché in questo mondo abbiamo bisogno di etichette e questa è quella che ci azzecca di più.
Musica e migrazione sono sempre state compagne di viaggio e co-creatori anche di nuovi linguaggi, sostenendo dall’interno identità e memoria. Oggi nello scenario internazionale, tra guerre ed emergenze umanitarie, la musica può mantenere gli impegni del passato?
Come dice, la musica ha sempre viaggiato con le persone, portando con sé storie, memorie, ferite e speranze. È stata ed è ancora uno strumento di resistenza, identità e dialogo. In un mondo segnato da guerre, migrazioni forzate ed emergenze umanitarie, credo che la musica non sia mai stata più necessaria. Non può risolvere i conflitti, ma può creare spazi di ascolto, di empatia e di umanità condivisa. È un linguaggio che non ha bisogno di passaporto, e in questo momento storico, è più che mai necessario. Non ritengo che la musica debba per forza avere sempre un ruolo, la sua creazione può essere fine a sé stessa e comunque portare conforto.