“Su indicazione del gabinetto politico-sicurezza, l’esercito israeliano, lo Shin Bet e la polizia di Israele hanno avviato oggi un’operazione militare – denominata muro di ferro – vasta e significativa per combattere il terrorismo a Jenin. Questo è un ulteriore passo verso il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo prefissati: rafforzare la sicurezza in Giudea e Samaria (Cisgiordania). Agiamo in modo sistematico e deciso contro l’asse iraniano ovunque esso estenda le sue mani: a Gaza, in Libano, in Siria, in Yemen, in Giudea e Samaria. E non finisce qui”. Lo ha dichiarato ieri il premier Israeliano Benyamin Netanyahu. Secondo il ministero della Sanità dell’Autorità palestinese l’operazione militare ha provocato almeno 8 morti palestinesi nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Nel frattempo il Capo di Stato Maggiore israeliano Herzi Halevi ha informato il ministro della difesa Israel Katz che andrà in pensione il 6 marzo 2025 “in virtù del riconoscimento della mia responsabilità per il fallimento dell’Idf il 7 ottobre e nel momento in cui l’esercito ha registrato risultati significativi ed eccezionali durante l’attuazione dell’accordo per il rilascio dei rapiti”.
Hamas chiede mobilitazione generale
Da parte sua, in risposta all’operazione congiunta, Hamas ha lanciato un appello per una mobilitazione generale in Cisgiordania. “Invitiamo le masse del nostro popolo in Cisgiordania e la sua gioventù rivoluzionaria a mobilitarsi e a intensificare lo scontro con l’esercito di occupazione”, si legge in una di Hamas. L’obiettivo, si legge, deve essere quello di ”sventare la vasta aggressione sionista contro la città di Jenin e il suo accampamento”. Contemporaneamente la leadership politica di Hamas si è detta pronta al dialogo con gli Stati Uniti. Lo ha dichiarato l’alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk nel corso di un’intervista al New York Times in cui riconosce al nuovo presidente americano Donald Trump il merito di aver “messo fine” alla guerra nella Striscia di Gaza.
“Merito di Trump”
Trump è un “presidente serio”, ha aggiunto. “Se non fosse stato per il presidente Trump, per la sua insistenza nel porre fine alla guerra e per l’invio di un rappresentante decisivo, l’accordo non si sarebbe mai concretizzato”, ha affermato Abu Marzouk riferendosi al nuovo inviato americano in Medioriente, Steve Witkoff. “Il merito di aver posto fine alla guerra spetta a Trump”, ha aggiunto. Abu Marzouk sottolinea quindi che Witkoff è il benvenuto a Gaza. “Può venire a vedere la gente e cercare di capire i loro sentimenti e desideri in modo che la posizione americana possa basarsi sugli interessi di tutte le parti, e non solo di una parte”, ha aggiunto.
Sabato liberazione di quattro donne
Il rilascio di quattro ostaggi a distanza di 7 giorni dai primi tre è previsto dall’accordo che Hamas ha firmato con Israele. Per ogni ostaggio israeliano, 30 detenuti palestinesi vengono scarcerati dalle prigioni di Israele. Se l’ostaggio rilasciato è un militare, il numero dei detenuti palestinesi scarcerati sale a 50. Ci sono ancora sette donne nella lista dei 33 ostaggi che Hamas rilascerà nella prima fase dell’accordo raggiunto con Israele. Quattro di queste verranno liberate tra sabato e domenica, come previsto dall’accordo e anticipato dal funzionario di Hamas Taher al-Nunu. La loro identità non è ancora stata resa nota, tuttavia c’è attesa per la tedesco-israeliana Arbel Yehud, 29 anni, che inizialmente doveva essere rilasciata domenica ma che è stata sostituita all’ultimo minuto da Emily Damari.
Pizzaballa: “Abu Mazen e Netanyahu non saranno il futuro”
“C’è un desiderio di cambiare modalità” ha evidenziato il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini in un’intervista a La Repubblica, definendo la tregua “un passo necessario di cui tutta la popolazione aveva bisogno per aprire una nuova pagina”. Tuttavia, ha aggiunto, “non è chiaro come, anche perché non ci sono le persone che ci aiutino a elaborare: con tutto il rispetto, Abu Mazen e Netanyahu non saranno il futuro. Potranno anche restare anni, ma non ci sarà una nuova visione se non ci saranno nuovi volti. La fine della guerra non vuol dire fine del conflitto: non è chiaro il dopo, chi fa cosa, dove, quando. Ma almeno adesso possiamo parlare del ‘dopo’, perché c’è un accordo che – per quanto fragile – vuole dare al conflitto un orientamento diverso”. Pizzaballa ha poi sottolineato il timore sul fatto che qualcuno possa boicottare l’accordo e il “rischio di passare da un tipo di caos a un altro”.