*Professore Ordinario di Filosofia del Diritto presso l’Università di Teramo
Il nuovo anno si apre tra le macerie delle guerre in corso e i nuovi conflitti che si accendono minacciosi. L’ordine internazionale del dopo-guerra fredda è in frantumi.
Il Consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, Jack Sullivan, ha riconosciuto che la visione ottimistica nutrita per trent’anni “is now definitively over”. È chiaro che si è trattato solo di un interludio nella storia. Ma forse è tutta l’epoca della ‘lunga pace’, i settant’anni seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale, che sta volgendo al tramonto.
Ciò impone di riconsiderare il nostro modo di guardare alla guerra, per mirare in modo efficace alla pace. La guerra non è affatto uscita dall’orizzonte della storia, come si è creduto nei decenni che abbiamo alle spalle. Essa può tornare a coinvolgere grandi potenze e produrre aggressioni volte a conquistare il territorio di un altro Paese: l’aggressione russa dell’Ucraina sta lì a mostrarcelo impietosamente.
L’idea che avessimo finalmente imparato dalla storia, che gli interessi globali avessero ormai superato i tribalismi nazionalistici, che il diffondersi di istituzioni libere, del diritto internazionale, della razionalità scientifica e morale avessero mostrato ormai al mondo intero l’insensatezza del ricorso alla guerra – ebbene tutto ciò è stato spazzato via in un sanguinoso, ma brevissimo lasso di tempo.
Eppure, la storia ha certo mostrato, e drammaticamente, l’orrore della guerra: russi, cinesi, europei e americani ne sono stati profondamente segnati nel XX secolo; le economie e le comunicazioni non sono mai state così interconnesse e i problemi globali – come il cambiamento climatico e la transizione energetica – così urgenti e riconosciuti da tutti; mai come prima d’ora l’educazione scientifica è alla base dell’educazione di massa in tutte le maggiori potenze del pianeta; il diritto internazionale e le istituzioni globali, a cominciare dall’ONU, sono sulla bocca di tutti e, almeno a parole, da tutti riconosciuti e condivisi.
E tuttavia, la guerra è tornata tra noi, coinvolgendo le grandi potenze, e assieme a essa torna il pericolo di escalation, anche nucleare, e di quella ‘ascesa agli estremi’ che, come mostrò Clausewitz, è la forma naturale della guerra, ciò a cui essa tende inerzialmente, se la politica non riesce ad assegnarle limiti circoscritti.
Tutto ciò impone la necessità di una riflessione nuova, che si volga anzitutto in modo realistico alle radici politiche della guerra, effetto di un ordine mondiale permanentemente precario, a causa dell’instabilità strutturale dell’ordine internazionale. L’epoca ‘wilsoniana’, apertasi dopo la Prima guerra mondiale, l’idea cioè di poter edificare l’ordine internazionale su principi nuovi, su una comunità di sicurezza condivisa, capace di garantire una “ultimate peace”, come disse Wilson e ripeté dopo la Seconda guerra mondiale Roosevelt – tale epoca si è chiusa. Il nuovo ordine mondiale, garantito dagli Stati Uniti a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, deve ora misurarsi con una nuova realtà multipolare, che imporrà all’Europa scelte non a lungo procrastinabili, a cominciare dalle spese militari.
Ma la nuova riflessione sulla guerra deve scendere ancora più in profondità, verso le radici antropologiche della guerra. Nel mondo pericoloso che si sta aprendo dinnanzi a noi l’azione politica deve essere guidata da uno sguardo oggettivo e disincantato sulla ‘natura umana’, al di là delle illusioni pacifiste. La guerra è un comportamento umano universale, presente in tutti gli ‘ordini sociali’ conosciuti, cioè cacciatori-raccoglitori, società agricole, società industriali. Per limitarci alla storia, essa è presente in tutte le epoche e in tutte le civiltà, presso le quali è sorta in modo indipendente.
Sembra quindi un pregiudizio interpretarla come il prodotto di una distorsione sociale originaria, come nell’immagine ottimistica del ‘buon selvaggio’ di Rousseau. Nel secondo dopoguerra, come comprensibile reazione alla catastrofe bellica, si diffuse invece nell’antropologia culturale una tendenza neo-rousseauiana, di cui Margaret Mead fu la più illustre rappresentante, tesa a sostenere che le popolazioni primitive sono pacifiche, e che la guerra sarebbe quindi solo “una cattiva invenzione culturale”. I ritrovamenti etnografici e archeologici hanno progressivamente smantellato questa visione, fino a quando Lawrence Keeley pubblicò nel 1998 War before Civilization, che rappresenta il punto di svolta dell’antropologia contemporanea. Da allora, innumerevoli studi hanno confermato la presenza costante della guerra nelle comunità preistoriche di cacciatori-raccoglitori, e oggi quasi nessuno difende più il “pacifismo neo-rousseauiano”. Anche i maggiori teorici del declino della violenza e della guerra nel mondo contemporaneo, vale a dire lo scienziato cognitivo Steven Pinker e lo storico Azar Gat, accettano questi risultati e sostengono piuttosto una tesi diversa: pur avendo origini profonde e non culturali, la guerra e la violenza possono essere limitate, e i dati mostrerebbero come, di fatto, a partire dall’era industriale, la violenza interpersonale e la guerra siano complessivamente diminuite.
È vero che la violenza interpersonale è diminuita negli ultimi due secoli, se si considerano ad esempio il tasso di omicidi, o la mitigazione dei sistemi penali ed educativi. È anche vero che le guerre tra grandi potenze si sono fatte più rare, ma anche più devastanti. È tuttavia improbabile, come fa ad esempio Pinker, pensare che le grandi guerre del XX secolo siano state solo un rigurgito del passato, “l’ultimo rantolo dei grandi eventi bellici prima della loro lenta scomparsa dalla storia”. Queste visioni, dominanti fino a pochi anni fa, si basavano sul fatto che le grandi potenze, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, non si sono mai confrontate direttamente tra loro, e durante la Guerra Fredda si sono accordate sul controllo delle armi nucleari. La guerra sopravvisse alla periferia del mondo e, dopo la decolonizzazione, scomparve anche la guerra di conquista. Tutto ciò sarebbe avvenuto non semplicemente per ragioni storico-politiche, ma come risultato di una radicale trasformazione di mentalità, che avrebbe neutralizzato le tradizionali pulsioni alla guerra, la brama di dominio, la vendetta, il tribalismo. Questa prospettiva era visibilmente influenzata dall’ottimismo che seguì la fine della Guerra Fredda, lo stesso ottimismo che generò in Francis Fukuyama l’illusione della “fine della storia”, riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico, la democrazia liberale e il capitalismo erano destinati a pervadere, gradualmente, tutte le nazioni del pianeta.
L’invasione dell’Ucraina (2022) da parte di Putin ha dissolto queste speranze, aprendo una nuova “guerra fredda”, in uno scenario internazionale però mutato, in cui al centro c’è il confronto con la superpotenza cinese, capace di agglutinare attorno a sé un fronte eterogeneo di Paesi, oltre la Russia, accomunati solo dall’avversione per l’Occidente.
Per affrontare questo nuovo scenario, mirando alla pace, occorre uno sguardo realistico sulle relazioni internazionali, di cui deve tornare a far parte anche una comprensione antropologica delle radici profonde della guerra.