Può sembrare una “frase fatta”, un luogo comune, ma rileggere il nostro passato ci aiuta a comprendere meglio il presente. E da questo passato ci si può rendere conto di come alcune problematiche oggi prioritarie, come l’immigrazione, trovano una spiegazione con tonalità talmente inquietanti da farci impallidire.
Sarebbe meglio dire arrossire. Già, perché viaggiando a ritroso nel tempo ci accorgiamo che il clima di intolleranza di cui si nutre gran parte del “Bel Paese” era lo stesso che alimentava gli animi dei Paesi stranieri quando eravamo noi gli emigranti.
Ellis Island, la porta dei migranti per gli Stati Uniti all’ombra della Statua della Libertà accolse oltre 12 milioni di uomini, donne e bambini a caccia del sogno americano. Tra il 1861 e il 1985 gli italiani emigrati all’estero sono stati circa 29 milioni: di questi, 10.275.000 sono successivamente tornati in Italia, mentre 18.725.000 si sono definitivamente stabiliti all’estero.
Nell’America del Repubblicano Rutherford Hayes, gli italiani erano considerati emigranti indesiderati, sfruttati come mano d’opera a basso costo e considerati arretrati dal punto di vista dei costumi e delle tradizioni.
Erano considerati una stirpe di assassini, anarchici e mafiosi e le testate giornalistiche dell’epoca, per scoraggiare nuovi arrivi, pubblicavano periodicamente invettive contro gli emigranti italiani. Il 18 dicembre 1880, The New York Times usciva con un editoriale titolato “Emigranti indesiderati”, nel quale l’immigrazione italiana veniva definita “promiscua, feccia sporca, sventurata, pigra, criminale dei bassifondi italiani”.
Il 17 aprile 1921 sullo stesso quotidiano, un articolo “Gli italiani arrivano a grandi numeri” lamentava il crescente numero di immigrati italiani.
Ma chi li aiutava a viaggiare via mare verso l’America? Anche allora, come oggi, i fautori di questa tratta di esseri umani erano gli italiani stessi. Gli emigranti passavano per le mani di agenti di emigrazione, chiamati “padroni”, il cui unico obiettivo era ricavare il massimo profitto dalla povertà assoluta.
Il tutto per trovare poca accoglienza tanto che, molti anni dopo, intercettato durante una conversazione nello Studio Ovale, il Presidente Richard Nixon definiva gli italiani in questo modo: «Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso.
Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è…. che non ne riesci a trovare uno che sia onesto». Prima di lui, nel 1924, il presidente del Museo americano di storia naturale, Henry Fairfield Osborn, durante una conferenza nazionale sull’immigrazione, sintetizzò lo spirito di accoglienza della popolazione statunitense: «Questi immigrati stanno facendo degli Stati Uniti una discarica per cittadini indesiderabili».
Ma c’è di peggio. Una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, dell’ottobre 1912, definiva in questo modo gli italiani. «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali».
Come detto in principio, la Storia si ripete. E le vittime di ieri, diventano i carnefici di oggi.
Ma si può parlare realmente di carnefici e si possono paragonare i migranti di oggi ai nostri connazionali di ieri? Personalmente non credo ma nei prossimi giorni sarà questo articolo di oggi un ottimo punto di “Discussione”.