venerdì, 22 Novembre, 2024
Esteri

Iran. Perché non possiamo essere indifferenti

Le proteste contro il regime difendono valori fondamentali anche per noi

Negli ultimi giorni le notizie della rivoluzione iraniana, delle proteste, anche a costo della vita, che il popolo iraniano sta portando avanti, sembrano essersi diradate a causa di un affievolirsi delle proteste. Nulla è meno vero di questo; quel che si è rinsaldato è il controllo delle notizie e ancora più aspra repressione del dissenso. Occorre però che noi europei restiamo vigili e attenti, le donne in primis. Vediamo perché.

Il Parlamento Europeo sta facendo il suo lavoro con apertura di inchieste per crimini contro l’umanità da parte del regime islamico, dopo la risoluzione approvata a gennaio con cui gli eurodeputati chiedono di “ampliare l’elenco delle sanzioni per includere tutti gli individui e le entità responsabili di violazioni dei diritti umani e i loro familiari”, tra cui la guida suprema Ali Khamenei, il presidente Ebrahim Raisi, il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri e tutte le fondazioni (“bonyad”) legate al Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc). L’Europarlamento invita ad aggiungere “l’Irgc e le sue forze sussidiarie, tra cui la milizia paramilitare Basij e la Forza Quds, alla lista dei terroristi dell’Ue”. Gli eurodeputati ribadiscono: “Tutti i Paesi in cui l’Irgc svolge operazioni militari, economiche o informative dovrebbero interrompere e vietare i legami con questa agenzia”.

Inoltre, i deputati chiedono il “rilascio immediato e incondizionato di tutti i manifestanti condannati a morte” per eliminare il dissenso e di “assicurare alla giustizia i responsabili dell’uccisione dei manifestanti”. Si esorta a tutelare gli iraniani nell’Ue dalla repressione del regime, compresi spionaggio e omicidi. Al contempo il regime sta facendo il suo lavoro senza esitazione e senza intenzione di arretrare di un passo rispetto a una repressione spietata: I centri di detenzione non ufficiali – per lo più gestiti dalla potente Guardia Rivoluzionaria e da agenti dei servizi segreti – sono al di fuori del sistema ufficiale iraniano e sfuggono a qualsiasi garanzia di un giusto processo e consentono forme di tortura senza limiti. Le testimonianze di una dozzina di sopravvissuti raccolte da CNN parlano di scosse elettriche, asportazione delle unghie, frustate, percosse che provocano cicatrici e fratture, e violenze sessuali.

L’avvocato iraniano, Saeid Dehghan, ha dichiarato di essere in grado di confermare che almeno due manifestanti condannati sono stati torturati in luoghi di detenzione non ufficiali prima di firmare confessioni
forzate che sarebbero poi state utilizzate per giustificare le loro condanne a morte. Ricordiamo Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini – due manifestanti messi a morte rispettivamente all’età di 21
e 39 anni – sono stati entrambi torturati in luoghi di detenzione non ufficiali prima di essere trasferiti nella prigione di Karaj, a sud di Teheran. Karami era un campione di karate iraniano-curdo. Suo padre ha
dichiarato a Mizan Online, un’agenzia di stampa affiliata alla magistratura iraniana, che Karami è stato picchiato così violentemente durante l’interrogatorio che i suoi carcerieri lo hanno lasciato in
strada pensando che fosse morto, prima di arrestarlo di nuovo. Samadi, studente di medicina, non è stato bendato. Dice di ricordare nei minimi dettagli lo spazio in cui è stato tenuto prigioniero: la coperta sporca
e cucita che fungeva da materasso, i volti di chi lo interrogava e l’armadio che conteneva gli strumenti di tortura, tra cui cacciaviti e pungoli. “Mi hanno dato scosse elettriche alla nuca, al collo e alla schiena”, racconta. “Ricordo vividamente che mi hanno dato scosse ai genitali per diversi secondi. Quando sono stato slegato, non ero in grado di stare in piedi. Ero così debole che i soldati mi hanno trascinato in cella”. Samadi è stato rilasciato su cauzione tre settimane dopo il suo arresto. Non è chiaro perché sia stato lasciato
andare, nonostante non abbia firmato una confessione. È fuggito dall’Iran poco dopo il suo rilascio e afferma di aver dormito in più di 15 rifugi da allora pur di sfuggire a nuove reclusioni.

Guardate la foto di Kezhin, la figlia di Kamal_Ahmadpour, una delle vittime delle proteste, che ha piantato dei fiori sulla tomba del padre in occasione del Capodanno iraniano, lo scorso 21 marzo. Kezhin dice in
un video che la riprende mentre scava la terra sulla tomba del padre: È primavera e sono venuto a piantare fiori per mio padre. Il ventisette novembre del 2022, Kamal (Syed Khaliq) Ahmedpour, 34 anni,, morì durante
le proteste a causa del fuoco delle forze repressive. Questo manifestante è stato gravemente ferito dalle forze repressive in via “Manba” a Mahabad ed è morto durante il trasferimento all’ospedale “Khomeini” di Mahabad. Kamal Ahmedpour era sposato e aveva due figli. È un uomo ed è morto per la libertà di sua figlia.

Le proteste, lo ricordiamo, iniziarono qualche anno fa per il coraggio di alcune, ma oggi sono un movimento compatto, ed è necessario che questa compattezza non si sfaldi, non retroceda, pena una sconfitta da
cui non si tornerà indietro: nel cuore di Teheran, in viale della Rivoluzione, a pochi passi dall’università, c’è una centralina elettrica che cinque anni fa è stata al centro di un episodio legato agli sconvolgimenti avvenuti in Iran negli ultimi tempi. Il 27 dicembre 2017 una ragazza di nome Vida Movahed si è arrampicata su quella centralina, si è tolta l’hijab bianco, l’ha infilato su un bastone e l’ha sventolato
in aria come segno di protesta contro l’obbligo d’indossare il velo.
Immediatamente ha attirato intorno a sé una folla e in meno di dieci minuti è stata arrestata e portata via. Ma il motto, “donna, vita, Libertà” ci riguarda tutti; questa rivoluzione ci riguarda tutti.

Eppure, pochi giorni fa, davanti ad una università romana, di cui non riporto il nome per non ledere il decoro dell’istituto, una studentessa a detto “a me non mi riguarda quello che succede in Iran, io penso ai
fatti miei”. Ecco, perché tali assurdità prive di fondamento, e del tutto suicidarie, non prendano in qualche modo piede, occorre ricordare che una società, la nostra, in cui si fa bandiera del diritto e in una
nazione, la nostra, prima al mondo ad abolire la pena di morte, e, ancora, in una società che fa della mobilità universitaria un valore, quello che accade a giovani, bambini e studenti, trucidati per i diritti
che chiedono, ci riguarda eccome. L’Iran è un fatto nostro.

Per meglio comprendere approfondiamo il significato del motto che sta scrivendo la storia, “donna, vita, libertà”. È nato per la prima volta nel 1993, creato dalle donne guerrigliere curde che combattevano sulle montagne per la libertà del loro popolo e divenuto oggi simbolo della rivoluzione iraniana, non è solo un grido in difesa del genere femminile, ma espressione di un nuovo paradigma di vita: democratico,
libertario ed ecologico. Queste parole riecheggiano da mesi anche nelle nostre piazze e trasmettono al mondo un insegnamento prezioso: le donne, principali vittime dei regimi teocratici e di una secolare cultura
misogina e patriarcale, sono anche i principali agenti della ribellione, rappresentano la forza di rinnovamento più critica e consapevole della società e qualunque processo porti alla loro liberazione è la base della
rivoluzione di liberazione di un intero popolo.

Jin, Jîyan, Azadî vivrà ancora a lungo, ma per sostenere questo movimento bisogna comprenderlo nel profondo come un pieno diritto e un valore che va al di là della nostra stessa ideologia politica, sociale o
religiosa. Questo motto riguarda la nostra identità, riguarda la nostra umanità.

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