Il prossimo appuntamento del tavolo di confronto sulla previdenza tra Governo e parti sociali si terrà l’8 febbraio. Come ha annunciato il ministro del lavoro Marina Calderone, si entrerà nel merito dei problemi cercando “mano a mano” di trovare soluzioni. Sappiamo che il sistema previdenziale è intimamente collegato con quello del lavoro. Più buste paga significa una migliore copertura previdenziale è assegni più pesanti. I numeri Inps presentati dal presidente Pasquale Tridico nel primo faccia a faccia tra Ministero e sindacati, indicano una proiezione del sistema al 2029, dati “non sono positivi”.
Lo squilibrio è generato dal rapporto tra lavoratori e pensionati che passerà dall’attuale 1,4 a 1,3 per poi arrivare nel 2050 a uno a uno. Un dato importante che il Governo così come le parti sociali non possono sottovalutare, in quanto ogni scelta che l’Esecutivo del premier Giorgia Meloni dovrà fare avrà un perimetro ristretto. In particolare rispetto alle risorse che dovranno sostenere la spesa previdenziale e le pressanti richieste di flessibilità e anticipo dell’età pensionabile, sollecitate dai sindacati.
La situazione attuale
Prima delle valutazioni politiche e i desiderata che ciascuno di noi chiede al Governo e allo Stato bisogna considerare i fatti come sono nella realtà. Basta dare uno sguardo alle cifre. Il numero delle pensioni attualmente erogate è pari a 22 milioni e 759 mila assegni. Mentre la platea costituita dai lavoratori, in tutto 22 milioni 554 mila. Sono i dati riferiti al 2022 e resi noti di recente dall’Ufficio studi della Cgia. In altri versi ci sono – in particolare in alcune aree del Paese – più pensionati che lavoratori. Non solo le proiezioni indicate dall’Istituto di previdenza pongono un altro problema. La spesa pensionistica in rapporto all’evoluzione demografica, alle prospettive del mercato del lavoro, e al fatto che il tasso di occupazione dell’Italia è sfavorevole, tra i più bassi tra i Paesi dell’Unione.
La svolta è creare lavoro
Da questa situazione di oggettive difficoltà si potrà uscire solo incentivando le politiche attive del lavoro. Servono più posti, sono necessarie assunzioni, salari soddisfacenti, giovani che hanno diritto ad una occupazione stabile. Insomma bisogna recuperare e creare milioni di posti di lavoro. Incentivare l’occupazione, partendo dal basso, puntare sulla formazione scolastica, sull’apprendistato, sulle specializzazioni delle professioni, su un lavoro, – torniamo a sottolinearlo con forza – ,non solo stabile ma sicuro dal punto di vista delle tutele anti infortunistiche. Temi che tra l’altro vedono d’accordo sindacati e industriali. Come ad esempio ridurre il peso fiscale che grava sulle buste paga. O migliorare il sistema degli incentivi alla produzione, fino a far crescere la previdenza complementare che segnerebbe un nuovo orizzonte.
Un assistenzialismo ingiusto
Ma pur mettendo in campo più assunzioni e meno fisco tutto questo non basterebbe per
ricreare un circolo virtuoso e riequilibrare il sistema. In questi giorni a indicare un altro aspetto cruciale del sistema previdenziale – studio presentato nella stampa della Camera dei Deputati – è il presidente di “Itinerari previdenziali”, Alberto Brambilla, che spiega come il Welfare italiano, abbia raggiunto e superato livelli di guardia, nel 2021 ha assorbito 517,7 miliardi. Le voci assistenziali sono lievitate di 30 miliardi rispetto al 2019 e del 97,75% dal 2008. Si è giunti al punto critico che l’assistenza ha un peso enorme sul groppone della previdenza. Per il Centro studi di “Itinerari previdenziali”, è arrivato il momento ad una separazione tra previdenza e assistenza. Quest’ultima pesa sui conti pubblici, attingendo dalla fiscalità generale, per 144,215 miliardi, con una spesa cresciuta di circa 30 miliardi tra il 2019, ultimo anno pre-pandemia, e il 2021 e quasi raddoppiata rispetto ai 73 miliardi registrati nel 2008. Una andamento che fa coniare al quotidiano degli industriali, il Sole24Ore, una espressione che condividiamo “Una Repubblica fondata sostanzialmente sull’assistenza”.
Dare a chi ha davvero bisogno
Questo non significa che non ci siano ragioni validissime per cui famiglie e cittadini non abbiano diritto ad essere assistiti in momenti di difficoltà. Anzi per noi l’assistenza e protezione di fasce sociali povere, e con loro bambini e anziani, devono avere il massimo di ciò che un welfare moderno può dare. Altro caso, invece, è il sostenere milioni di persone inattive, che hanno deciso di non contribuire allo sforzo generale di crescita del Paese. “Spendiamo molto, soprattutto in assistenza, ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata a inefficienti controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa”, osserva Alberto Brambilla. Siamo d’accordo perché per dirla con l’attenzione e la serietà posta nel dossier, serve agire su vere politiche attive e strumenti di incontro tra domanda e offerta di lavoro. È ancora serve “un monitoraggio efficace tra i diversi enti erogatori sarebbe essenziale per aiutare con servizi e strumenti adeguati solo chi ne ha davvero bisogno”. Questo il punto da centrare perché altrimenti siamo ad un paradosso. Quello di dare denaro a chi non ne ha bisogno e non arriviamo a quanti hanno necessità e vivono in condizioni di estrema fragilità. Una doppia ingiustizia perché va a colpire le imprese e chi lavora seriamente e con coraggio, e neghiamo sostegni a chi ha veramente bisogno di aiuto.