Dopo l’ennesimo suicidio di una giovane donna in carcere, quello della ventisettenne Donatella Hodo, avvenuta a Montorio il 18 agosto scorso, un gruppo di detenute ed ex detenute si sono unite dando vita al gruppo social “Sbarre di Zucchero”, con l’unico scopo di denunciare le gravi condizioni degli istituti penitenziari femminili e combattere affinché le detenute siano rispettate e trattate come esseri umani. Solidali con la giovane mamma cui avevano tolto il figlio alla nascita e per questo suicida, vogliono spiegare perché le carceri femminili non funzionano. Ce ne ha parlato Michela Tosato, ex compagna di cella di Donatella e creatrice del gruppo.
Com’è nata questa iniziativa?
Nessuna di noi si aspettava quel gesto di Donatella, l’idea del gruppo è nata subito dopo. Conoscendo i vuoti e le mancanze, il senso di abbandono che si prova dentro, con tutte le ragazze che hanno condiviso un pezzo di vita con lei abbiamo deciso di unire le forze per raccontare la realtà che si nasconde dietro la detenzione femminile. Da gennaio a settembre si sono tolte la vita ben 62 persone (15 nel solo mese di agosto), di queste 4 erano donne. Un numero alto se si considera che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2% del totale.
Quali sono le maggiori criticità che incontra una donna detenuta in carcere?
La vita di una detenuta è più dura di quella di un detenuto uomo, in quanto limitata nelle strutture e nelle attività. Nel carcere di Verona, ad esempio, alcuni spazi prima destinati alle donne ora sono diventati luoghi per svolgere solo attività maschili [per una loro superiorità numerica – ndr]. Nelle celle c’è quasi sempre solo acqua fredda e le docce esterne sono utilizzabili solo per un’ora al giorno. All’interno delle piccole celle si cucina dentro i bagni… Le strutture in cemento sono caldissime in estate e fredde e umide in inverno, quindi nocive per la salute. Spesso la donna in carcere non è solo detenuta, ma anche madre; in ogni caso ha una affettività diversa rispetto agli uomini e, quindi, ha un grande bisogno fisico e mentale di avere maggiori contatti con la famiglia, cosa che è sempre difficile e complicato da attuare. Per non parlare della femminilità: è la prima cosa che ti tolgono appena entri in carcere. Difficile procurarsi cosmetici e altri effetti personali, non esistono trucchi, profumi e anche i saponi per la pulizia quotidiana scarseggiano.
Perché, a tuo parere, ci sono tanti suicidi in carcere?
I suicidi avvengono per lo più tra i giovani, ragazzi e ragazze spesso con problemi legati alla tossicodipendenza. È un ambiente difficile, se non sei strutturato e forte per sopportarlo la tua mente finisce per esserne distrutta. Il tempo infinito, il dover aspettare per ricevere qualsiasi cosa logora. E poi c’è la solitudine, il senso di abbandono, lo sconforto, il sentirsi continuamente sbagliati, la sensazione di essersi rovinati la propria vita e di non avere più alcun un futuro. Perdi la speranza e se in quel momento sei solo ti lasci andare alla disperazione e commetti atti terribili.
Quali sono gli scopi e le azioni che il gruppo si è prefissato di raggiungere in concreto?
Ancora non sappiamo cosa faremo da “grandi”, ma il nostro obbiettivo è testimoniare per fare conoscere tante realtà celate. Tanti parlano di carcere ma non lo conoscono veramente. Lo faremo con il nostro gruppo Facebook e con i vari eventi che stiamo organizzando sia on line che in presenza. La nostra mission è cercare di cambiare una esecuzione penale che non funziona.
Vi rivolgete, quindi, soprattutto alle istituzioni, cosa chiedete?
Solo cose realizzabili: poter fare più telefonate all’interno degli istituti penitenziari, mentre ora sono a discrezione delle direzioni; misure alternative al carcere e maggior accompagnamento al reinserimento sociale. Perché quando un detenuto esce e ritorna in libertà ma senza soldi, casa, famiglia, con il nulla con cui è entrato, torna inevitabilmente a delinquere e scatta quella terribile cosa che è la recidiva. C’è bisogno di una maggior collaborazione con la società esterna, il detenuto non è sempre e solo una persona da cui stare alla larga, non è un mostro né per forza un delinquente seriale e spacciato. È una persona che ha sbagliato, ha pagato e che molto spesso ha solo tanta voglia di riscatto.
Che riscontri avete avuto, ci sono persone che vi sostengono?
Abbiamo accanto a noi tante persone, tanti professionisti. Avvocati, giornalisti, medici, garanti, associazioni. Tengo a precisare che noi ex detenute ci conosciamo, ci siamo scelte e abbiamo un obbiettivo comune: quello di raccontare le nostre storie, far comprendere che a chiunque può succedere di sbagliare e di entrare in carcere, ma anche che la vita non termina nel momento in cui supera la porta carraia. Dopo c’è tanto di più. Dopo hai una consapevolezza diversa di te e, se riesci a rialzarti, anche se un po’ ammaccato, riparti. Il carcere è un’esperienza forte e drammatica ma anche umana. O ti fortifica o ti distrugge. Ma comunque ti cambia.
Progetti futuri?
Siamo nati poco più di un mese fa, difficile parlare di progetti ora. Ma siamo sicure che, grazie alla nostra forte motivazione e al supporto che abbiamo trovato in tante persone, le nostre richieste di cambiamento, porteranno a qualcosa di concreto.