domenica, 29 Settembre, 2024
Politica

Autogol dei referendum-manifesto. Salvini faccia come Fanfani: si dimetta

Pochissimi votanti nella consultazione sui 5 complicati quesiti riguardanti la giustizia

Quesiti incomprensibili, di difficile interpretazione anche per esperti del settore, usati in modo maldestro come manifesto contro lo strapotere di certi magistrati. Uno strumento inadeguato allo scopo, con un sostegno inconsistente da parte di chi si era messo in prima fila in questa disastrosa avventura. Salvini ci ha messo la faccia e l’ha persa. Dovrebbe trarne le conseguenze. Il referendum non è una felpa ma un atto politico.

Promuovere referendum è un atto politico che deve essere valutato nelle sue conseguenze. La sconfitta nel referendum contro il divorzio portò alla fine di Fanfani come capo carismatico della Dc. Chi pagherà per l’errore grave commesso dai promotori dei 5 referendum sulla giustizia?

E si, perché non si può andare all’assalto della magistratura e di alcune leggi simbolo di un giustizialismo esasperato solo per il gusto di farlo. L’etica della responsabilità deve prevalere su quella della testimonianza. L’umiliante sconfitta dei referendum farà ringalluzzire i giustizialisti di ogni risma e ne vedremo gli effetti anche sui rapporti tra ordine giudiziario e politica.

Gli errori commessi sono stati molteplici.

Soprattutto i quesiti. Incomprensibili e di diversa interpretazione anche da parte di eccellenti giuristi non sospettabili di partigianeria. Se le domande cui i cittadini devono rispondere con un Si o un No non sono chiare, se sono lunghissime e disorientano perfino i tecnici di queste materie, i referendum nascono morti in partenza.

Il potere del popolo di abrogare leggi o parti di leggi è bellissimo ma può essere esercitato solo se i quesiti sono semplici, chiari, precisi e se le conseguenze di queste abrogazioni sono di facile comprensione per tutti. Così è stato per il referendum sul divorzio, sull’aborto, sul nucleare.

I 5 quesiti proposti erano il contrario di tutto questo.

Erano un manifesto. Avevano un leit-motiv comune: dare una batosta allo strapotere della magistratura e alle sue contorsioni interne che provocano una pessima amministrazione della giustizia. Buone intenzioni, gestite malissimo.

E qui veniamo alle responsabilità.

La più grave è quella di Salvini. Da leader di un partito del governo che ha tra le priorità la riforma della giustizia avrebbe dovuto fare il diavolo a quattro a Palazzo Chigi e alle Camere per far passare i contenuti dei referendum. Invece ha puntato sul solito doppio binario: al governo senza forzare i giochi, in piazza facendo l’arruffapopolo. Ma stavolta Salvini si è perso per strada. E con il chiodo fisso della Piazza Rossa, in nome della pace, si è dimenticato delle piazze italiane. Da mesi non lo abbiamo visto indossare felpe referendarie.

Nel sito ufficiale del comitato per il SI, è scritto che i promotori sono il Partito radicale, Matteo Salvini e la Lega. È singolare che accanto a due partiti ci sia il nome del leader di uno dei due, Come se Salvini volesse intestarsi personalmente questa battaglia. Neanche Marco Pannella, che era un gigante in materia era mai arrivato a tanto. Ma ora la frittata è fratta e non resta che trarne le conclusioni. Chi ha perso così clamorosamente si faccia da parte. Sarebbe un gesto, come dire, onorevole. In fondo questi referendum erano un biglietto di sola andata. Ed è andata male.

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