Mettere le mani alla riforma fiscale significa, immancabilmente, deludere le aspettative di alcune fasce di contribuenti a vantaggio di altre.
I ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri
Le entrate tributarie non possono mai diminuire perché i servizi da garantire alla collettività nazionale aumentano quotidianamente a dismisura e diventa inevitabile mettere le mani nelle tasche dei soliti contribuenti, trascurando, però, ragionevole capacità contributiva e criteri di progressività.
Molta acqua è passata sotto i ponti dalla prima riforma fiscale del dopo guerra (legge 11 gennaio 1951, n. 25) del Ministro delle Finanze pro-tempore Ezio Vanoni, più nota come “riforma Vanoni”, i cui propositi erano:
1) diminuzione delle aliquote; 2) aumento dei minimi imponibili; 3) rompere il consueto rapporto di diffidenza tra fisco e contribuente.
L’obiettivo principale era quello di far contribuire tutti alla spesa pubblica in ragione delle possibilità di ciascuno e chi aveva di più contribuisse in misura maggiore al gettito fiscale.
Prevedeva numerosi scaglioni, con aliquote crescenti dal 2%, fino al 50% per redditi oltre i cinquecento milioni di lire, con l’intendo di voler cambiare la “testa” degli italiani con una imposta equa e giusta. Una legge di perequazione tributaria non più basata sull’accordo/compromesso contribuente/funzionario incaricato.
Il sogno del Ministro delle Finanze Ezio Vanoni era esentare da imposta il reddito considerato necessario per una vita decorosa del contribuente e della propria famiglia. Evitare una tassazione elevata, confiscatoria del reddito stesso.
Con l’avvento del Testo Unico delle leggi sulle Imposte Dirette ( D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645) la situazione si presentava peggiorativa prevedendo, nella sostanza, aliquote dal 2% al 65% per redditi imponibili di 500 milioni di lire o superiore. Sedici aliquote basi e le altre ricavate con formule (Art. 139), dando origine a ben 792 scaglioni di reddito di cui alla tabella allegata al successivo D.P.R. 25 maggio 1962, n. 667, in applicazione della legge 18 aprile 1962, n. 209.
La riforma tributaria di mezzo secolo fa (legge delega del 9 ottobre 1971, n. 825)
Basata sulla delega legislativa al Governo che ai sensi dell’art. 76 della Costituzione impone “…determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.”
Nasceva così, tra l’altro il D.P.R. 597/1973 “Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche” che all’articolo 11 disponeva le aliquote crescenti per scaglioni di reddito indicate nella tabella allegata e cioè n. 32 aliquote e scaglioni prevedendo redditi oltre 550 milioni di lire con aliquota marginale del 72%, ora passate da cinque a quattro.
Il principio costituzionale della capacità contributiva e della progressività si esaurirebbe nella fascia di redditi 50/55 mila euro (aliquote 23%, 25%, 35%) e oltre tale importo, aliquota 43%, in aggiunta a tutti i redditi le addizionali regionali e comunali.
La pressione fiscale, benché mitigata dai correttivi di detrazioni e deduzioni, è concentrata, soprattutto, sulla fascia sociale di sopravvivenza, mentre sono evidenti redditi da lavoro dipendente più che multipli dell’attuale ultimo scaglione contemplato.