Nel processo ENI/Nigeria alcuni PM avrebbero omesso di far conoscere alle difese prove rilevanti a discolpa degli accusati.
Vero? Non vero? Si vedrà. La Ministra Cartabia dovrebbe però prendere il toro dei problemi del sistema penale per le corna. E trarne le conseguenze nella sua riforma. Proviamo a ragionare.
I pilastri del nostro sistema penale
Il nostro sistema penale-costituzionale prevede in teoria:
- l’obbligatorietà dell’azione penale (ovvero se c’è una notizia di reato i PM sono obbligati ad aprire un’indagine e se del caso effettuare una richiesta di rinvio a giudizio);
- la non separazione delle carriere tra chi esercita il mestiere dell’accusa (i PM) e chi quello di giudicare (il giudice del processo);
- una disciplina riformata della prescrizione (Riforma Bonafede) per cui di fatto ora questo strumento, che prima veniva utilizzato anche per deflazionare i processi, non si compie quasi più se non a seguito di un processo definitivo che può lasciare un imputato ad attendere una fine del giudizio, che potrebbe anche non arrivare prima della sua naturale dipartita da questa terra.
Azione penale obbligatoria, ma…
Da questi tre pilastri dovrebbero discendere alcune conseguenze.
L’obbligo di esercitare sempre l’azione penale dovrebbe garantire un sistema di assoluta neutralità dei PM e indipendenza dalla politica giudiziaria espressa dai governi.
Un sistema ben diverso da Paesi come gli USA, dove l’esercizio dell’azione penale è facoltativo e dove le carriere di giudice e PM (lì sono i District Attorneys o DA) sono rigorosamente separate. Di fatto quindi in USA i PM sono espressione della maggioranza di governo che li nomina o li elegge e perseguono finalità di repressione del crimine graduate e calibrate sul programma politico del governo stesso. In pratica, all’inizio di ogni anno il DA annuncia il suo programma indicando quali reati riterrà più dannosi per la comunità e tali da meritare la piena attenzione dell’ufficio dell’accusa. Molto rozzo, ma molto intellettualmente onesto e trasparente
In Italia invece, ogni PM che riceva una notizia di reato dovrebbe aprire subito un fascicolo a prescindere dalla gravità del reato e in rigoroso ordine cronologico. L’appartenenza dei PM allo stesso ordine dei giudici poi dovrebbe garantire parità di trattamento e rispetto della verità processuale, per cui se un PM trova una prova che è a favore dell’imputato, deve condividerla e se del caso addirittura non proporre il rinvio a giudizio.
Chi decide la politica giudiziaria?
Questa la teoria. In pratica, ciascuna Procura della Repubblica di fatto crea una propria politica giudiziaria semplicemente non dando priorità ad alcuni reati e concentrandosi su altri, all’insaputa dei cittadini, che se ne accorgono solo vedendo che nella propria città i PM si concentrano su alcuni reati e ne tralasciano altri (oltre l’80 % dei furti in appartamento non vengono perseguiti fino al processo).
E ora -a leggere i giornali e se mai fosse vero- i cittadini scoprirebbero anche che un PM può credere di essere solo il rappresentante dell’accusa e dunque non condividere importanti prove a discolpa dell’indagato, pur di vincere.
Però molto spesso, fino alla riforma Bonafede, la prescrizione salvava tutti. I PM, perché, essendo intervenuta la prescrizione, venivano risparmiati da un giudizio su come avevano gestito l’indagine e le prove. Gli indagati, perché il decorso del tempo li liberava da ogni conseguenza.
Riforme urgenti
È ora di trarre le conclusioni. Aver solo riformato la prescrizione, stabilendone la quasi non operatività completa, senza chiarire la necessità di separare le carriere tra PM e Giudici e senza rendere più trasparente il processo di politica giudiziaria perseguito dalle diverse procure, aggiunge solo un ulteriore impaccio alla macchina della giustizia, e rischia di creare pericolose distinzioni tra le diverse zone del Paese, rette da diverse procure.
Nella giustizia, come in natura, bisogna avere sguardo d’insieme e non procedere con la lente d’ingrandimento.