lunedì, 16 Dicembre, 2024
Il Fisco e la Legge

Riforma fiscalità internazionale: aperture Usa, aspettative EU

Il mondo cambia rapidamente, le istituzioni inseguono le rivoluzioni tecnologiche e sociali con grande affanno ma ci sono temi come: libertà, emancipazioni, diritti, che vanno sempre più ridiscussi. Tra le questioni  delicate nel rapporto fra cittadini e Stato c’è il fisco. L’economia che cambia e con essa la vita dei cittadini. Questo il tema sensibile ed allo stesso tempo controverso che tutti dovrebbero conoscere, poiché riguarda ogni cittadino, presentato oggi nella rubrica “Il Fisco e la Legge”, dell’avvocato Paolo de’ Capitani di Vimercate, dello studio Uckmar.
Una riflessione approfondita che lascia comprendere come siamo esposti ogni giorno a cambiamenti e innovazioni in grado di mutare le nostre vite.
Buona lettura!

 

Insoddisfatti del gettito riscosso dai giganti dell’economia digitale, diversi Paesi hanno negli ultimi anni mostrato una crescente intolleranza per il sistema di fiscalità internazionale costruito durante il secolo scorso – tra gli altri grazie a Luigi Einaudi – e hanno quindi iniziato a proporne una modifica, che tenesse maggiormente in considerazione le aspettative dei Paesi di sbocco delle attività produttive che queste aziende multinazionali svolgono in più Paesi, scelti anche in base alla pianificazione fiscale. Commissioni di inchiesta, studiosi e giornalisti hanno ripetutamente evidenziato i benefici che, poggiando sulla frammentazione dei sistemi fiscali e le loro inevitabili asimmetrie, la pianificazione fiscale riesce a garantire alle multinazionali. Multinazionali che, oltretutto, ricevono comunque lauti incentivi dai diversi Governi per attrarne investimenti e attività, più o meno materiali.

 

GLI INTERVENTI DELLA COMMISSIONE EUROPEA

Ha provato a dire la sua anche la Commissione europea, trascinando, tra gli altri, Apple e l’Irlanda in un contenzioso per il recupero di aiuti di Stato per 13 miliardi, garantiti attraverso ruling fiscali giudicati eccessivamente benevoli. Lo scenario che si presenta è insomma quello di gruppi più ricchi e potenti di singoli Stati e che pagano poche imposte nei Paesi dove vendono i loro prodotti e servizi, perché ormai operano per lo più da remoto, basandosi in Paesi intermedi come Irlanda, Svizzera, Olanda e Lussemburgo che, pur di attrarne una parte delle attività, riducono il conto fiscale. Il quadro è poi completo se si aggiunge che sin dall’Internet Freedom Act gli Stati Uniti d’America, base della gran parte di queste multinazionali, hanno preferito lasciar crescere le loro società minimizzandone il carico fiscale e aiutandole in questo modo a conquistare il mondo, come in effetti hanno fatto nel giro di pochi anni: ecco il cosiddetto Stateless income.

Ben si comprende quindi l’attrito che è nato tra le Amministrazioni americane, non solo quella di Trump, e i Governi europei o la Commissione UE quando questi hanno iniziato ad avanzare delle pretese su queste risorse: era l’inevitabile conseguenza delle procedure di recupero di aiuti di Stato promosse da quest’ultima e dei tentativi di estensione della potestà impositiva dei mercati di sbocco rispetto a risorse che il Governo americano, pur non avendole “ancora” tassate, ha sempre ritenuto cosa propria. Se qualcuno deve proprio tassare quei profitti, insomma, gli Stati Uniti sembrano chiaramente voler dire la loro, difendendo lo status quo della fiscalità internazionale, e quindi le prerogative del Paese di residenza.

Ecco quindi le minacce di ritorsione doganale ai sensi della sezione 301 dello US Trade Act contro i Paesi che, come Francia e Italia, hanno adottato misure unilaterali come la web tax, che appunto garantisce ai Paesi dei mercati di sbocco nuovi poteri impositivi.

 

LE APERTURE DI BIDEN

Come leggere, dunque, le recenti aperture che paiono provenire dall’Amministrazione Biden? Possiamo davvero considerare acquisita l’approvazione da parte americana delle web tax o una riforma dei principi della fiscalità internazionale che conceda ai mercati di sbocco maggiori prerogative fiscali? In un mondo che, nonostante gli sforzi in senso contrario, è comunque ormai globalizzato, la partita di ogni riforma si gioca nelle sedi internazionali e, nel caso in esame, all’Ocse. Gli ultimi anni della Presidenza Trump hanno visto americani ed europei scontrarsi apertamente e talvolta con toni anche accesi. Le ipotesi sul tavolo sono due: un primo pilastro della riforma è quello, inviso agli americani, di una estensione della potestà impositiva dei Paesi di destinazione delle attività multinazionali; il secondo prevede invece l’applicazione di una aliquota minima di prelievo, al di sotto della quale il Paese di residenza dovrebbe “supplire” e quindi riscuotere al posto degli altri. Questa seconda ipotesi, evidentemente, è più gradita agli americani e anche le ultime dichiarazioni di Biden e Yellen si concentrano più su questa che sul primo pilastro. Se in sede Ocse trapela un certo ottimismo, e si individua il G20 di luglio a Venezia come punto di svolta per un accordo globale, è opportuno non eccedere nelle aspettative e mantenere un sano realismo. I soldi in gioco per i singoli Stati sono davvero tanti, come rilevanti sono anche le conseguenze strategiche di una nuova impostazione globale.

DIVERGENZE TRA I 27

Gli ostacoli quindi non sono pochi, anche perché l’Unione europea, lungi dall’esprimere una voce comune, porta in seno Paesi che sino ad oggi hanno ritratto enormi vantaggi dallo status quo e che a fronte di un prelievo minimo che Biden ha addirittura ipotizzato nel 21%, vedrebbero svanire questo vantaggio competitivo, si pensi all’Irlanda, ai Paesi Bassi, al Lussemburgo. Spostare l’asse del prelievo verso i mercati di sbocco, inoltre, significa in prospettiva lasciare buona parte di queste risorse ai giganti asiatici, proprio negli anni in cui la demografia dei Paesi occidentali richiederà incrementi della spesa sociale. Oltre agli ostacoli di politica internazionale, peraltro, ve ne sono altri, non meno rilevanti, di natura tecnica: siamo talvolta indotti a ritenere che le regole in vigore abbiano poco senso, ma nel caso di specie questo non è del tutto vero. La fiscalità internazionale come oggi la conosciamo è stata pensata così perché la misurazione del reddito richiede alcune condizioni che meglio si verificano nei Paesi di produzione dello stesso, piuttosto che in quelli ove si verificano i consumi. Né va dimenticato che i Paesi cosiddetti di sbocco già prelevano importi significativi, anche maggiori delle imposte sul reddito, grazie ai tributi sul consumo, come l’Iva. Ad ogni 1.000 euro di telefonini venduti in Italia corrispondono 220 euro di Iva. Quello che ha messo in crisi alcune delle regole attuali è piuttosto un insieme di fattori tecnologici che hanno consentito lo svolgimento di attività da remoto e una apertura dei mercati che permette, appunto, di scegliersi il Paese più conveniente da utilizzare come base: la concorrenza fiscale tra Stati, insomma, non è un fattore irrilevante. Certamente, lo sfruttamento dei dati che vengono quotidianamente raccolti da ogni apparecchio, telefoni, automobili, frigoriferi e financo macchinari industriali, sono una componente oggi determinante nella catena di creazione del valore.

 

INGENTE PERDITA DI GETTITO

Sempre l’Ocse stima che la pianificazione fiscale adoperata dalle multinazionali poggiando sulle attuali regole di imposizione internazionale causi una perdita di gettito stimata nella forbice tra 100 e 240 miliardi di dollari annui: tutto sta a vedere, insomma, chi se ne potrà appropriare. Ma se, come detto, gli USA sembrano intenzionati a non cedere più di tanto alle richieste degli alleati, è evidente che “The Internet’s prevalence and power have changed the dynamics of the […] economy […] The nature of the Internet makes a state’s economic nexus, a term defined […] to describe taxable activities of interest to the state, much broader than it was in 1992” e che “What Wayfair [il contribuente, NDR] ignores in its subtle offer to assist in tax evasion is that creating a dream home assumes solvent state and local governments” e, infine, che un cambiamento dello status quo “rightly end[s] the paradox of condemning interstate discrimination in the […] economy while promoting it ourselves”. Non sono parole di Macron, Draghi o qualche leader populista, ma quelle della Corte Suprema degli Stati Uniti stessi (sentenza South Dakota v. Wayfair del 2018).

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