Oggi gli istituti di credito disincentivano l’accumulo di risparmi sui conti correnti dei clienti più benestanti per invogliarli a investire. Ma tocca a loro tornare a investire su imprese e famiglie. Sono nate per dare sostegni e far crescere l’economia. Diano fiducia a chi chiede denaro per produrre. Il Recovery Found non sia solo un affare per le banche lo sia per l’intero Paese.
Se la ripresa sarà affidata alle banche, per le imprese e le famiglie sarà tutta in salita. Da tempo infatti gli istituti di credito hanno ridotto se non addirittura smesso di puntare sull’economia reale, sui territori dove sono presenti, a beneficio del tessuto economico dell’intera collettività. Alle banche nel dopoguerra e negli anni del boom era chiesto di intervenire, sostenere, “scremare” ciò che poteva essere produttivo da ciò che non lo sarebbe stato. E le banche furono determinanti per stabilizzare e rendere più produttivo e ricco il Paese. Poi sono arrivati i servizi bancari, le finanze creative, gli investimenti sbagliati, con la drastica riduzione di ciò che era una visione dello sviluppo del “sistema Italia”.
La tendenza delle banche a lesinare i crediti riducendo così gli investimenti mano a mano ha influenzato anche i cittadini che hanno ritenuto molto più vantaggioso risparmiare: questo vale per quella parte di società italiana che riesce ancora a mettere in banca il denaro. Nel 2020 in piena pandemia, chi ha potuto ha lasciato nelle casse delle banche nazionali una cifra che supera i 56 miliardi. Uma mole enorme di denaro che ha innescato un effetto paradosso, almeno per il senso comune: gli istituti di credito non vogliono soldi, non credono che il risparmio sopra una certa soglia sia una buona idea, preferiscono prestare il denaro in modo da disincagliare un po’ l’economia e avere indietro un maggiore valore.
ECCESSO DI RISPARMIO
Oggi c’è un altro capitolo di questa metamorfosi, la cosiddetta paradossale “battaglia contro i conti correnti”. In altri versi si penalizza chi ha più di 100 mila euro in banca, chi supera questa soglia rischia o la chiusura del conto corrente o di dover pagare delle commissioni piuttosto elevate. A innescare questa strategia è stata la Banca centrale europea, con la sua politica espansiva, ha portato in negativo i tassi di interesse in modo da favorire la circolazione di denaro e di prestiti e stimolare così la crescita economica. La Bce ha fatto sì che le banche debbano pagare uno 0,5% di tasso di interesse sulle giacenze. Gli istituti hanno preso la palla al volo e per non caricarsi i costi dei risparmi milionari indurranno i clienti a cambiare rotta.
La decisione più drastica è arrivata dal Fineco, che ha annunciato la sua intenzione di chiudere i conti correnti che superano i 100mila euro di giacenza, a meno che i loro titolari non scelgano una qualsiasi forma di investimento o finanziamento. Per ora, invece, Intesa Sanpaolo, secondo quanto è emerso ufficiosamente, preferisce far capire ai clienti la dispersione di valore rappresentata dai conti troppo ricchi. Il punto è che i 1.745 miliardi di euro oggi depositati nelle banche da famiglie e imprese italiane, è un record storico, con un aumento di 56 miliardi in un anno, sono diventati un problema.
Del resto, come spiegano gli analisti finanziari, anche per il cliente tenere troppi soldi depositati a tasso zero non è un grande affare: è vero che in tempi di Covid l’incertezza è forte e che i mercati finanziari hanno una rischiosità ben maggiore, ma è anche vero che troppi soldi sul conto non fanno altro che essere erosi da un’inflazione che – secondo le previsioni – inizierà ad arrivare. Un ragionamento è dunque utile farlo.
UNO SCENARIO ASFITTICO
In questo scenario, economicamente così asfittico per le imprese e famiglie che invece sono costrette a guardare al futuro e quindi a investire su se stesse, arriva l’iniziativa del sindacato dei bancari della First Cisl che sottolinea come il Paese ha bisogno di una ripresa forte determinata da uno shock da investimenti. Il piano che la Federazione italiana reti e servizi per il terziario, prevede punta ad un nuovo corso dell’economia italiana che non può che partire dagli investimenti pubblici. Ma questi non basteranno e quindi servirà il risparmio privato da mettere a servizio degli investimenti e della ripresa.
La voragine economica scavata dalla pandemia con un crollo del Pil dell’8.9%, della caduta dell’occupazione e degli investimenti non può essere superata solo a parole e con le buone intenzioni. Sappiamo che le banche puntano a recitare la parte del leone nella gestione dei fondi del Recovery Found. Ma tocca allo Stato sollecitare gli istituti di cvredito a sostenere le imprese, a dare il via libera ai progetti di strutture come InvItalia e le misure per l’occupazione come “Io resto al Sud” o “Garanzia giovani”.
Iniziative che per lo più si arenano di fronte al no delle banche. Per il 2021 le stime della Commissione Ue parlano di una ripresa blanda con un modesto + 3,4%, tra l’altro in Italia molto differenziata tra Regioni, con il Sud che farà molto più fatica. Negli ultimi venti anni l’Italia ha perso terreno. La crisi ha disseminato chiusure, disoccupazione e sfiducia. Ma c’è stata anche una sorprendente assenza dei Governi nel varare politiche fiscali in favore di imprese e famiglie. Così sono aumentate le disuguaglianze, le differenze economiche, il tracollo del ceto medio. Si sono favorite le avventure bancarie che hanno portato a disastri nei conti, messo in serie difficoltà i cittadini correntisti e chi ha investito. La crisi da pandemia non può essere l’alibi per tutto. Se davvero si vuole riportare l’Italia in crescita allora davvero servono iniziative shock ad iniziare dalle banche, che tornino a ragionare e investire su chi ha in mente un Paese più moderno, più ricco e magari più giusto.