I beni confiscati alle mafie costituiscono risorse importantissime, ma l’attuale quadro complessivo gestionale va migliorato. Fatti salvi casi virtuosi, ce ne sono tantissimi opinabili. Di qui la necessità di maggiori controlli di cui il vicepresidente della Corte dei Conti, Francesco Fimmanò, preannuncia che si farà promotore nei prossimi giorni.
È un’analisi come di consueto lucida e ben argomentata quella che il nostro autorevole interlocutore, ordinario di Diritto Commerciale nell’Università del Molise, nonché direttore scientifico dell’Università Telematica Pegaso e di Universitas Mercatorum, offre in esclusiva alla Discussione su un tema quanto mai delicato.
Professore, cosa pensa del riuso per fini sociali dei beni confiscati alle mafie? Come giudica la gestione del settore da parte delle autorità a ciò preposte?
“Innanzitutto ritengo che siano risorse importanti qualitativamente e quantitativamente. Occorre distinguere la fase del sequestro da quello della confisca. La prima è temporanea ed esige metodologie conservative. A mio avviso vanno gestite come le procedure concorsuali ed a seconda dei casi con una gestione sostitutiva pubblico-processuale in altre a mezzo di affitto ben garantito per i casi di depauperamenti. In caso di confisca credo che i beni vadano posti sul mercato al pari di quanto avviene per le procedure concorsuali. Semmai prevedendo prelazioni per l’affittuario, per cooperative od imprese sociali. Non si può obiettare che c’è pericolo che vengano riacquistate dai mafiosi, perché in questo caso possono essere riconfiscate 1,10,100 volte. La logica di colpire la mafia in ciò a cui tiene di più funziona anche così. Macchiavelli scriveva che l’uomo dimentica prima la morte del proprio padre che la confisca dei propri beni, figuriamoci i mafiosi. Ma va concessa solo la prelazione nulla di più: si tratta di risorse importanti da valorizzare, specie in una fase di deficit pubblico come questa. L’attuale quadro complessivo gestionale comunque va migliorato. Fatti salvi casi virtuosi, ce ne sono tantissimi opinabili. In ogni caso i gatekeeper (i controlli) sono sempre fondamentali ed occorre aumentarli. Per quanto mi riguarda me ne farò fautore in Corte dei conti trattandosi di risorse pubbliche a tutti gli effetti. Ciò sia per quanto concerne l’Agenzia per i beni confiscati che terzi concessionari o affittuari. La Corte ha infatti giurisdizione su tutti i danni a risorse pubbliche. Per finire credo che la riforma del codice dell’insolvenza era la giusta occasione per disciplinare definitivamente i rapporti tra misure cautelari penali e procedure concorsuali. Esistono ancora tante antinomie. Purtroppo la legge delega aveva spazi limitati. Per quanto mi riguarda avrei previsto una unificazione ed uniformazione”.
I beni in questione tornano nella disponibilità della collettività. Nel corso di una recente intervista ha riportato in auge la teoria dei beni comuni per sostenere la proposta della nazionalizzazione dei beni della fondazioni bancarie. Come mai?
“Quanto al suo riferimento alla mia intervista sulle fondazioni bancarie si tratta di tematica completamente diversa. Tuttavia lei argutamente richiama il mio riferimento alle teorie del compianto maestro ed amico Stefano Rodotà. Certo la categoria dei beni pubblici è ampia e vanno trovati strumenti di efficientemento in una fase come quella che viviamo. Spesso la cosa migliore è la dismissione. Attenzione però alla privatizzazione selvaggia. Nel nostro paese sono stati privatizzati male e talora senza liberalizzare gioielli di famiglia come Telecom o Autostrade. Viceversa sono stati mantenuti in proprietà beni improduttivi che generano solo costi e talora disastri. Occorre un approccio liberale ma non liberista. Lo Stato deve intervenire nell’economia, specie in fasi come questa, ma deve farlo secondo i criteri dell’efficacia e dell’efficienza. Orbene tenere il fondo sovrano del paese di quasi cento miliardi di euro, di origine pubblica in fondazioni private autoreferenziali non mi pare in questo momento storico scelta condivisibile. Ora a parte alcune nobili eccezioni, in alcune zone nel Nord del Paese, non mi pare che l’esperienza, ormai trentennale, abbia dato grandi risultati. I patrimoni – beni pubblici delle fondazioni vanno utilizzati, in parte almeno, per ridurre il deficit. Ci sarebbe tanto da dire sui controlli e sulla gestione opaca delle stesse e sui rapporti con la politica, specie locale, ma far tornare i beni pubblici quali sono e dismetterli, specie le azioni bancarie, risolverebbe in radice il problema”.
Le mafie si annidano ovunque, ma l’attività di magistratura e forze dell’ordine, da sola, non è sufficiente. Lei che è un autorevolissimo esponente del mondo delle professioni e accademico cosa pensa possano fare i professionisti e le università per contrastare la “cultura” mafiosa?
“Purtroppo la cultura dell’illegalità è terreno fertile del cancro mafioso. Non bisogna fare però di tutta l’erba un fascio. Ovunque nel paese esistono forze sane, sensibilità formidabili e passione, tanta passione. Occorre valorizzare questa componente che è poi la maggioranza, fare rete e infondere l’esempio. L’esempio nel senso dell’esistenza è tutto. Basta pubblicizzare solo gli esempi negativi. Tanto ormai li conosciamo a memoria. Basta con l’alibi di far conoscere il marcio; purtroppo tutti lo conosciamo ormai. Lasciamo fare alle forze di polizia ed alla magistratura il loro lavoro e diffondiamo l’immagine di un Paese serio quale siamo. Anche nell’educazione dei figli l’esempio vale più di mille insegnamenti. Anche la cultura del lavoro si nutre dell’esempio. Cominciamo ad esaltare le persone e le comunità che fanno il proprio dovere. È pur vero che le notizie cattive vendono più di quelle buone ma cominciamo a cambiare questo approccio culturale e facciamolo subito perché nel lungo periodo, come diceva Keynes, saremo tutti morti”.