«I cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo. L’anima poi dimora nel corpo, ma non proviene da esso; ed anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo»
Il testo spesso adottato per esprimere quale sia il ruolo dei cristiani, è uno dei più antichi e suggestivi scritti dell’antichità cristiana, “la cosa più scintillante che sia stata scritta in greco dai cristiani” (Norden). Più che un’apologia vera e propria può considerarsi come il ponte di passaggio fra la letteratura subapostolica e quella apologetica del sec. II. Ai Padri Apostolici si ricollega soprattutto per l’intensità dell’esperienza religiosa che essa rivela; dagli apologisti si distacca per l’assenza completa di un’impostazione intellettualistica dell’apologia. La parte più notevole della lettera è però l’illustrazione che l’autore fa (cap. V-VI) dell’esperienza e della vita cristiana dilungandosi a illustrare in una pagina mirabile il perfetto parallelismo fra la funzione dell’anima nel corpo e quella dei cristiani nel mondo.
A distanza di quasi due mila anni il 6 dicembre 1953 il Papa Pio XII in uno dei suoi radiomessaggi rivolgendosi ai giuristi cattolici aveva spiegato che: «il cammino verso la Comunità dei popoli e la sua costituzione non ha come norma unica ed ultima la volontà degli Stati, ma piuttosto la natura, ossia il Creatore. Il diritto all’esistenza, il diritto al rispetto e al buon nome, il diritto a un carattere e a una cultura propri, il diritto allo sviluppo, il diritto all’osservanza dei trattati internazionali, e diritti equivalenti, sono esigenze del diritto delle genti dettato dalla natura. Il diritto positivo dei popoli, indispensabile anche esso nella Comunità degli Stati, ha l’ufficio di definire più esattamente le esigenze della natura e di adattarle alle circostanze concrete, e inoltre di prendere con una convenzione che, liberamente contratta, è divenuta obbligatoria, altre disposizioni, dirette sempre al fine della comunità». (c.II).
Due testi che pur così distanti tra loro coniugano urgenze e responsabilità che siano atte a dare il senso dell’azione che principalmente i cristiani (ma non solo loro) sono chiamati a esercitare nel mondo: promotori di un regno di amore, giustizia e pace. Il profeta Isaia, invitando il popolo ebraico a non perdersi d’animo e a nutrire la speranza che nonostante la situazione di cattività (babilonese) in cui si trovava avrebbe potuto rivedere la propria terra, la Terra Promessa, così scriveva: «Il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. E il mio popolo abiterà in una dimora di pace». (32,15ss).
Il momento storico che ci vede drammaticamente e globalmente protagonisti sperimenta una forte crisi del sistema sociali, economico, giuridico; sono quotidiane le notizie che si riversano nei nostri canali di comunicazione per riportare sequenze di violenza, di guerre combattute non solo con le armi ma anche e forse oggi ancora più subdolamente con i mezzi della finanza e dell’economia, di degrado umano e sociale, di indifferenza dilagante, di chiusura all’altro e all’Altro. Se ne dedurrebbe una sorta di impotenza profonda e di ineluttabile corsa verso la fine, il nulla, la sconfitta definitiva.
Eppure la parola fine ancora non è stata scritta sullo svolgersi della storia dell’uomo e della donna: ad essi infatti la primordiale sfida della libertà che è stata consegnata all’atto creativo (Genesi 2) viene rinnovata in ogni luogo e in ogni tempo perché ripercorrano la via della responsabilità. Nel versetto di Genesi 2, 15 dove si afferma che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse», il Giardino si configura fin dal principio non tanto come un piacevole spazio quanto piuttosto come un luogo drammatico, vale a dire come un’occasione, come quella circostanza fisica che coincide con una vocazione spirituale: l’uomo è posto nel giardino affinché possa dimostrare ciò di cui è capace. Il primo tema da sottolineare può così essere raccolto sotto un’affermazione del tipo: la creazione è perfetta ma non compiuta, o anche: attraverso l’idea di creazione il logos biblico pensa ad un tempo – paradossalmente o, per l’appunto, creaturalmente – la perfezione e l’incompiutezza, pensa ad una perfezione che è tale proprio perché attende di essere compiuta. Grazie a Dio, l’uomo non è mai un semplice esecutore o un mero spettatore, ma fin dal principio è uno degli attori, l’unica creatura chiamata a diventare uno dei protagonisti (questo strano plurale – come possono esserci due protagonisti: Dio e l’uomo? L’antropologica biblica, così pronta ad esaltare l’umano, è ancor più preoccupata, se così posso esprimermi, di non nascondere quel fallimento che ha finito per trasformare l’intervento dell’uomo da ciò che doveva essere, una “creazione secondaria”, in ciò che è stato, una de-creazione autodistruttiva che trasforma la dipendenza che libera in limitazione o subordinazione; la realtà del mondo (il giardino del racconto genesiaco), teatro della storia, come realtà ostile o arida (cfr. Isaia 45,18); ciò che è ancora di compiere come un niente. È facile comprendere che l’idea di uomo che il logos biblico mette in scena è in verità molto più complessa di quella a cui fa riferimento l’ideologia liberale, poiché in esso la libertà, sempre affermata e comunque difesa (l’uomo è creato libero), si intreccia essenzialmente con un dramma (libertà e peccato) che investe il soggetto non dall’esterno, ma dal suo stesso interno. Così intesa la libertà si rivela al tempo stesso come “cosa” e come “segno”, verità che l’ideologia liberale, ad esempio, è del tutto incapace di riconoscere dato che essa si ostina ad illudersi che la libertà possa essere astrattamente solo la prima senza dover essere anche il secondo. La Bibbia, invece, non si stanca di ripeterlo: all’origine c’è il dono ma il dono è sempre cosa (dove si concentra il godimento) e segno (dove si concentra il desiderio), e il segno è il luogo per eccellenza della libertà e dunque della prova.
Il dato biblico, sopra esposto se pure con brevi tratti, diventa chiave di lettura che diacronicamente unisce i testi assunti in apertura del presente contributo: il cristiano in quanto uomo è l’interprete della libertà che implica la prova e l’esercizio della responsabilità; ad ogni uomo specie se di professione cristiana viene richiesto di servire l’istanza della comunità dei popoli accomunati dal diritto inalienabile di godere dei diritti insiti nella natura stessa della persona quale condizione di possibilità della formulazione dei diritti positivi; la prospettiva del diritto che ottenga pace e gioia nello spirito, qualcosa di più ampio della semplice “felicità”. La lettura dei primi tre capitoli fondamentali della Genesi rivela che la Bibbia guarda alla fragile libertà umana con un certo pessimismo. Non c’è, dunque, speranza per l’autore della Genesi? No, la catena della maledizione può essere interrotta e ciò accadrà quando Dio stesso, deluso della sua creatura, ma non disperato di riportarla nel giardino perduto, deciderà di ritornare in scena, scegliendo un uomo, Abramo, come nuovo interlocutore. La storia di Abramo, infatti, comincia con la radice verbale ebraica della benedizione, brk, (berakà) ripetuta per ben cinque volte: «Ti benedirò – dice il Signore ad Abramo – tu stesso diventerai una benedizione, benedirò coloro che ti benediranno […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (12,2-3). Sorge ormai l’alba della storia della salvezza, un’alba che non ha conosciuto il tramonto e che si affaccia nel quadrante della storia umana per continuare il suo corso.
Vedrei in queste prospettive il senso del Natale, anche in tempo di pandemia sanitaria: il progredire dell’alba della salvezza che in Gesù, il Cristo, ha la sua luce più luminosa in quanto principe (nel senso più letterale di origine) della pace e della giustizia.
Ma l’uomo cammina nella storia, non si ferma (né potrebbe) ai rigurgiti di sentimenti interiori per quanto fossero i migliori possibili; da qui la necessità di coniugare, nello stile annunciato dalla lettera a Diogneto, mente e cuore, persona e società, giustizia e diritto, economia e sviluppo, privato e pubblico, politica e politiche efficaci. Il tutto inteso come luogo di confronto, di impegno, di scelte, di composizione delle distanze, di orientamento al bene.
I secoli segnati dalla storia sia prima che dopo Cristo hanno raccolto eventi di grande valenza antropologica con toni di alta luminosità ma anche eventi di rara tenebrosità umana e sociale che hanno sollecitato e sollecitano l’impegno del cristiano che deve “cercare il Regno di Dio” e “ordinare” le cose temporali secondo il disegno di Dio, come recita il testo conciliare: «È proprio dei laici, per la loro vocazione, cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (LG 31). È anche ciò che ribadisce il Sinodo del 1987 (propositio 4), la Christifideles laici 15; e Catechismo della Chiesa cattolica 898).
I tanti pronunciamenti e insegnamenti dei Papi solo a voler considerare il secolo XX e questi primi due decenni del XXI ci riportano con insistenza alla vera spiritualità del cristiano e, per diversi aspetti, della persona in generale che pur senza aderire a una confessione di fede tuttavia non è privo di una sua dimensione interiore, appunto la spiritualità personale; essa consiste nell’avviare e tracciare itinerari di giustizia che sappia avvalersi del criterio distributivo piuttosto che commutativo; nell’elaborare ordinamenti giuridici nazionali sempre più aperti ai rapporti e agli apporti internazionali; nel porre principi e valori sociali che tutelino, difendano, custodiscano e promuovano dignità della persona, bene comune e benessere sociale.
Un Natale, quello del 2020, che potrebbe e forse dovrebbe segnare una nuova alba di spiritualità politica, di teologia sociale, di diritto delle genti per adire le vie della civiltà dell’amore tane volte indicata da PaoloVI: «Sogniamo noi forse quando parliamo di civiltà dell’amore? No, non sogniamo. Gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono doveri. Per noi cristiani, specialmente. Anzi tanto più essi si fanno urgenti e affascinanti, quanto più rumori di temporali turbano gli orizzonti della nostra storia. E sono energie, sono speranze. Il culto, perché tale diventa, il culto che noi abbiamo dell’uomo a tanto ci porta, quando ripensiamo alla celebre, antica parola di un grande Padre della Chiesa, S. Ireneo (t 202): Gloria . . . Dei vivens homo, gloria di Dio è l’uomo vivente (S. Irenaei Contra haereses, IV, 20, 7: PG 7, 1037)».