“L’Epifania tutte le feste si porta via”. Vi ricordate questo vecchio proverbio? La Befana, tanto cara ai bambini, chiude il lungo periodo delle feste, portando con sé tanti regali come buon auspicio per l’anno che verrà. In questo infausto 2020, però, potrebbe essere il virus a far tabula rasa di quella magica atmosfera che, da sempre, il Natale porta con sé. Quest’ardua impresa, però, non sarà per lui tanto facile. Faremo di tutto per impedirglielo. Con un supplemento di responsabilità e di disciplina potremmo salvare il Natale e trascorrerlo, in serenità, con le nostre famiglie. Una sola cosa, però, vorremmo chiedere al signor virus. Che ci porti via non il Natale, Capodanno e l’Epifania ma questo pio desiderio che tutto possa ritornare come prima. No, signori miei. Non facciamoci illusioni, perché nulla sarà più come prima. Al contrario, a voler coltivare la speranza, le cose non dovrebbero andare come prima, ma meglio di prima! Se la guerra, le epidemie, le continue violenze dell’uomo sulla natura e tutte le tragedie di questo mondo non ci hanno insegnato nulla, allora vuol dire che l’uomo ha perso il ben dell’intelletto. Senza voler discutere sui massimi sistemi che ci porterebbero troppo lontano, vorrei rimanere con i piedi per terra, anzi nella nostra terra. E vorrei fare a tutti una domanda: dopo tutto quello che è successo nel nostro martoriato Mezzogiorno; dopo i conclamati disastri della sanità in Calabria, in Sicilia e in Campania; dopo le giravolte e la confusione nel gestire la pandemia in Basilicata, in Puglia e in Sardegna, ancora pretendiamo che al Sud ritorni tutto come prima? Ma per carità di Dio! Questa pandemia non può generare solo una (sacrosanta) critica al potere politico. Dovrà anche produrre una forte spinta alla revisione di quella lentissima macchina burocratica, messa in piedi dalle regioni del Sud. È qui, infatti, più che al Centro Nord, che la pandemia ha provocato un cataclisma. Ha fatto esplodere tutte le contraddizioni su cui si è basata, dagli anni settanta in poi, l’architettura della società meridionale. Un assetto istituzionale che ha una “sovrastruttura” politica molto spesso estranea alla “struttura” reale della comunità civile. Tanto per dirne una, le Regioni – che i costituenti, nel 1948, avevano immaginato come la più alta espressione di autonomia e autogoverno – nelle occasioni più drammatiche della storia repubblicana, specie al sud, sono andate tutte in palla. Già l’ordinaria amministrazione lasciava molto a desiderare. Questa tragedia della pandemia ha svelato al mondo intero tutta l’incompetenza, la disorganizzazione e la sciatteria di una confraternita che, in quei territori, viene ancora pomposamente definita come “classe dirigente”. Non è vero che il regionalismo ha irrobustito e consolidato la democrazia nel Mezzogiorno. Non è detto che nelle autonomie locali si pratichi sempre il buon governo. Non è per niente vero, infine, che nei Consigli regionali siano sbocciati professionisti della politica più onesti e competenti di quelli che siedono in Parlamento. Nei giorni scorsi ho dato uno sguardo ai lavori dell’Assemblea Costituente, nella parte in cui si discuteva del regionalismo da introdurre nel nostro ordinamento. Le Regioni, come articolazioni dello Stato, furono concepite per contrastare il rigido centralismo che aveva caratterizzato la storia del Regno d’Italia. Sotto l’età della destra e della sinistra storica, ma anche sotto il giolittismo e ancor più sotto il fascismo. Ebbene, molti tra i padri costituenti ci videro giusto. Iniziò Francesco Saverio Nitti nel dire che le Regioni sarebbero state troppo costose per il Bilancio dello Stato. Erano contro l’ordinamento regionale anche Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo. E non avevano tutti i torti se è vero che la ricostruzione del Sud è avvenuta, nei primi venticinque anni della Repubblica, a esclusiva opera della Cassa per il Mezzogiorno. Poi agli inizi degli anni settanta, incominciarono a funzionare le Regioni che, in cinquant’anni della loro storia, hanno raggiunto ben pochi obiettivi tra quelli auspicati dalla nostra Costituzione. Per non parlare della Riforma del titolo V, voluta fortemente dal centrosinistra per ammansire la furia leghista. Un tormentone durato più di vent’anni che continuava a vagheggiare la Padania come Stato sovrano, distinto e distante dall’altra Italia, papalina e borbonica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È aumentata la confusione normativa. I conflitti tra Stato e Regioni si sono intensificati. Il continuo contenzioso difronte alla Corte Costituzionale rende plastica l’immagine di uno Stato unitario solo sulla carta, poco autorevole, sempre più in affanno nell’affermare la sua sovranità. E poi è scoppiata questa pandemia. Una tragedia che ha reso la Sanità regionale lo specchio cortese di tutte le malefatte, le ruberie e le inefficienze accumulate nel corso degli anni. Tutte “energie negative” che hanno attivato gli ingranaggi burocratici della “macroregione” meridionale, assurta proprio in questi giorni agli onori della cronaca politico-giudiziaria. Questo regionalismo, per dirla in parole povere, ha creato solo un nuovo ceto politico, con gli annessi e connessi privilegi dei “commoda possessionis”. Ma per le popolazioni del Sud, quali sono le utilità che si possono trarre dal bilancio di questi settant’anni? Tra le tante voci critiche che si levarono contro questo modello di regionalismo, vorrei citarne una che mi ha molto colpito per la concretezza e la veridicità delle sue intuizioni. Nella seduta dell’Assemblea Costituente di Mercoledì 28 maggio 1947, dopo gli interventi di Dugoni, Zotta ed Einaudi, intervenne Fausto Gullo che allora era anche Ministro dell’Agricoltura. Così iniziò il suo intervento: “ Chi come me – e sono parecchi ad averlo fatto – ha girato un po’ l’Italia, specie in periodo elettorale e ha parlato a folle più o meno numerose, nei luoghi più vari del nostro paese, non avrà mai sentito venir fuori un grido, una parola, un’interruzione, una richiesta che potesse costituire il segno che la questione regionale è sentita dal popolo italiano. Non mi è mai accaduto e ho tenuto centinaia di comizi, specialmente nell’Italia del Mezzogiorno, a beneficio della quale, soprattutto per i sostenitori dell’ordinamento regionale, la riforma verrebbe fatta. Non mi è mai accaduto, in nessuna piazza, da parte di nessuna folla che una richiesta del genere venisse espressa……. In ogni piazza dell’Italia del Mezzogiorno, invece, ho visto e sentito quanto sia appresa dalla folla meridionale la necessità della Riforma Agraria”. E subito dopo raccontò un episodio che gli capitò durante un comizio che tenne in un paesino della Basilicata. (non specificò quale). Nella Lucania del 1947, “in questa tanto sventurata e generosa regione d’Italia”, (la definì proprio con questi due aggettivi), ricordò che in un solo giorno tenne cinque o sei comizi. Al termine, disfatto dalla stanchezza, era finalmente arrivato all’ultimo paese previsto dal programma. Ma lì, dopo tante insistenze, lo costrinsero a visitarne un altro ancora. Vi arrivò che erano le undici di sera e disse a quei signori che avevano tanto insistito che si sarebbe limitato a poche parole di saluto, perché disfatto dalla stanchezza. E così fece. Ma notò subito un fatto strano. Tutta la folla, formata per lo più da contadini e braccianti, incominciò a mugugnare e a manifestare tutta la sua delusione. E allora si fece avanti uno di loro e gli disse senza tanti fronzoli: “Ma come, abbiamo fatto tanto per avere qui con noi il Ministro dell’Agricoltura e voi vi limitate solo a un saluto di circostanza? Caro Ministro voi ci dovete parlare della Riforma Agraria”. E, sempre con riferimento a questo episodio, così concluse: “Dico soltanto che fui costretto a parlare lungamente della Riforma Agraria, ciò che non mi è mai capitato a proposito dell’ordinamento regionale”. Sono trascorsi settantatré anni da quella seduta dell’Assemblea Costituente e c’è da scommettere che, in piena pandemia, i figli e i nipoti di quei contadini, rivolti ai governatori e ai ministri, avrebbero detto più o meno le stesse cose: basta con questi commissari, basta con questo tira e molla tra governo e regioni, basta con questa sanità da terzo mondo. Parlateci degli ospedali, dei medici che mancano, dei tanti miliardi destinati alla sanità e finiti chissà dove. Parlateci dei vaccini e curateci come si deve. E se i Commissari e le Regioni danno forfait, allora mandate l’Esercito e anche Gino Strada. Lasciate stare l’Africa e le missioni internazionali. È tutto il Sud che sta soffrendo. È il nostro Mezzogiorno che ora va salvato.
Michele Rutigliano
Giornalista, è nato a Ferrandina (Matera) nel 1953. Vive e lavora a Roma. Dopo la laurea in Legge si è specializzato in Scienza delle Comunicazioni Sociali alla Pontificia Università Gregoriana. Ha lavorato alla Camera dei Deputati, presso la Commissione Bicamerale per il Mezzogiorno, all'Ufficio Stampa e alle Commissioni Parlamentari. Nella X Legislatura è stato Segretario particolare del Vicepresidente della Camera On. Michele Zolla. Successivamente, in posizione di distacco, al Quirinale, presso la Segreteria particolare del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Attualmente collabora con riviste e quotidiani su progetti legati allo sviluppo del Mezzogiorno.