mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Società

L’estetica anticonformista di Gucci formato Netflix

Un bollitore sul fuoco. Una pallida, malinconica luce tinge le stanze di un appartamento romano. Una giovane donna si alza e inizia la sua giornata polverizzata in gesti di greve quotidianità. 

Ma come ha detto Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, è proprio qui, nella paludata realtà di tutti giorni, che si mostrano “epifanie inattese”, corrusche lucciole che sfavillano per brevi attimi nel buio denso. Bisogna saperle cogliere e conservare gelosamente, come numi tutelari quando inevitabilmente le tenebre torneranno a calare su di noi. 

Guccifest è appunto uno “sciame” di fragili barbagli, “storie capaci di squarci immaginativi e gesti onirici, storie che mettono al centro l’umano” e che insieme vogliono offrire un messaggio di speranza creativa e un tributo alla bellezza, che non va mai trascurata, specie in tempi cupi.

Sette episodi per sette giorni, lanciati su un’apposita piattaforma online dal 16 al 22 novembre, una mini-serie dal titolo OUVERTURE of Something that Never Ended, frutto delle menti fervide e visionarie di Alessandro Michele e del regista Gus Van Sant. Protagonista l’attrice, artista e performer Silvia Calderoni, impegnata in una surreale routine quotidiana in diversi scenari della città capitolina e in ambienti dal fascino retrò squisitamente “gucceschi”, mentre incontra una serie di talenti internazionali e amici della Maison, fra cui: Paul B. Preciado, Achille Bonito Oliva, Billie Eilish, Darius Khonsary, Lu Han, Jeremy O. Harris, Ariana Papademetropoulos, Arlo Parks, Harry Styles, Sasha Waltz e Florence Welch.

GucciFest è stata anche l’occasione per quindici giovani stilisti indipendenti di presentare fashion film che celebrano le loro creazioni in una generosa operazione di tutoraggio mediatico.

Ma soprattutto il festival si è rivelato il mezzo innovativo e multiforme per presentare la collezione Primavera Estate 2021 che, attraverso il linguaggio stratificato e al contempo immediato della serie tv, può finalmente dispiegare tutta la forza eversiva e visionaria dell’estetica di cui da anni si fa ormai portatrice la maison fiorentina: l’irruzione del camp nel quotidiano e l’abbattimento delle gender barriers. Già dal primo corto, la protagonista, intenta a fare stretching davanti a un apparecchio vintage col tubo catodico, viene chiamata e invitata alla riflessione dall’ospite del talk show in diretta, l’attivista queer Paolo Preciado: è necessaria una “rivoluzione dell’amore”. Ecco il primo squarcio.

Il messaggio, in fondo, non è nuovo. Siamo ormai abituati alla battaglia ingaggiata da Alessandro Michele contro i codici istituzionali del fashion sistem attraverso i suoi personaggi fluidi e roboanti, manifesti di inclusione e sgargiante libertà espressiva. Allora dove si nasconde la forza del Guccifest, il suo successo?

Alessandro Michele, da genio intuitivo qual è, ha compreso che la moda, con il suo potere affabulatorio e pervasivo di comunicare oggi la società, di raccontare il nostro tempo, non poteva più esprimersi nell’angusto spazio fisico della passerella. Una sfilata non esaurisce la visione che si cela dietro una collezione, ormai svincolata dai canoni della stagionalità, come aveva affermato lo scorso giugno sempre Michele nei suoi Appunti dal silenzio, sospesa in un eterno presente a intessere storie che ci facciano capire e un po’ ci capiscano. Perché, in fondo, vogliamo tutti liberarci dallo stigma della banalità, dell’ordinario, del già visto e i freak di Gucci con la loro carica dionisiaca, malinconici e moderni insieme, ci danno il vademecum per essere tutti alla Verlaine degli “imperi alla fine della decadenza”.

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