Lo scorso settembre l’Ocse ha pubblicato un documento, di cui il titolo riflette pienamente la posizione ambivalente del settore culturale, per certi versi motore socio-economico, per altri costretto in politiche inadeguate: “Shock cultura: COVID-19 e settori culturali e creativi”.
La pandemia ha mostrato tutte le fragilità di un sistema già da tempo in crisi, che però si è sempre distinto per la sua resilienza. Mai come nei mesi scorsi, poi, ha trasformato le sue peculiari vulnerabilità in forza, così ha cominciato a imporsi il tema della rilevanza del settore culturale da un punto di vista non solo artistico, ma anche economico e sociale.
Il Sistema Produttivo Culturale e Creativo offre lavoro a 1,55 milioni di persone (il 6,1% del totale degli occupati in Italia).
Dal Rapporto elaborato nel 2019 da Symbola e Unionecamere “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, emerge che il Sistema Produttivo Culturale e Creativo, costituito da imprese, PA e non profit, genera un indotto di circa 96 miliardi di euro e attiva altri settori dell’economia, producendo il 16,9% del valore aggiunto nazionale.
Le realtà culturali e creative hanno, in buona sostanza, un effetto moltiplicatore di pratiche virtuose: stimolano l’innovazione in tutta la sfera economica e realizzano un impatto sociale positivo in diversi ambiti, dall’istruzione, l’inclusione, la rigenerazione urbana, sino al benessere e alla salute.
Nonostante questi meriti ormai acclarati, la strada è ancora in salita.
Il settore culturale è tra i più colpiti dalla pandemia: l’Ocse ha stimato che in Europa la percentuale di posti di lavoro a rischio nel comparto varia dallo 0,8% al 5,5%, a seconda dell’analisi nei Paesi più vivaci culturalmente, e ogni singolo settore vive una condizione diversa.
Ovviamente a essere state messe in ginocchio sono principalmente le attività legate a eventi e luoghi fisici. Nonostante la capacità di adattamento dimostrata da molti operatori culturali, con il ricorso alle moderne tecnologie, all’innovazione digitale a ai nuovi canali per diffondere la cultura e lo spettacolo, è innegabile che ci sia stata una drastica riduzione in termini salariali e nel numero di imprese operanti.
Uno dei motivi di questo tracollo è senza dubbio da imputare alle politiche adottate. Il Sistema Cultura, già prima della pandemia soffriva di misure spesso non adeguate, immaginate per modelli imprenditoriali e occupazionali tradizionali che non lo rispecchiano in alcun modo.
Tali misure di sostegno all’occupazione e al reddito, infatti, “non sono sempre accessibili o adattate alle nuove forme di occupazione atipiche (freelance, intermittenti, ibride-ad esempio, combinando il lavoro part-time retribuito con il lavoro freelance) che tendono a essere più precarie e sono più comuni nei CCS (Cultural and Creative Sectors). Anche le misure di finanziamento delle PMI potrebbero essere meglio adattate alle imprese basate su attività immateriali. Analogamente i sostegni all’innovazione che si rivolgono in gran parte alle innovazioni tecnologiche, potrebbero essere adattati ad altre forme di innovazione più comuni nei CCS come ad esempio le innovazioni di formati e contenuti, anche attraverso l’uso misto di media diversi, e riconoscere che il settore genera innovazione attraverso competenze creative, nuovi modi di lavorare, nuovi modelli imprenditoriali e nuove forme di coproduzione”.
Poi c’è sempre il tema degli investimenti limitati, sia da un punto di vista meramente economico che strategico, che interessano il mondo della cultura: la verità è che tali realtà vivono soprattutto di finanziamenti pubblici di tipo ministeriale, regionale e comunale.
Analizzando le sovvenzioni a livello locale, che ricadono sotto la voce “Interventi culturali e interventi diversi nel settore culturale”, in base agli ultimi dati raccolti da openbilanci (piattaforma che raggruppa i bilanci di tutti i Comuni italiani) è possibile riscontrare un considerevole gap su base territoriale.
Nel 2019 Firenze risulta la grande città che investe di più in cultura, con una spesa pro capite di 101,3. Seguono tutti comuni del nord: Trieste (93,26), Milano (76,8), Venezia (63,41) e Torino (53,35). In coda alla classifica troviamo Messina (11,37 euro pro capite) e Napoli (10,22), non risultano ancora accessibili i dati di Catania e Palermo. Questi numeri, al momento, confermano che sono le città del Sud Italia a investire meno nel settore.
Ancora ora, purtroppo, “la cultura non è considerata un’attività, ma piuttosto una passività, una linea di bilancio, l’ultima su cui investire, la prima da tagliare. Le task force nazionali per la ripresa post-COVID-19 non hanno pienamente riconosciuto l’importanza della cultura per la ripresa”.
Per ribaltare questo stato di cose, però, deve cambiare la prospettiva: i CCS e la filiera che sono in grado di attivare, costituiscono un “ecosistema” interconnesso.
Forse risulterà più praticabile l’idea di adottare misure ad hoc per il Sistema Cultura se si comprende che “in assenza di un sostegno pubblico reattivo e di strategie per la ripresa, il ridimensionamento dei settori culturali e creativi avrà un impatto negativo sulle città e sulle regioni in termini di posti di lavoro e di reddito, di livelli di innovazione, di benessere dei cittadini e di vivacità e diversità delle comunità”.