L’altro giorno mi son preso la briga di spulciare alcuni dati Istat (aggiornati al 31 dicembre 2019) che riguardano le nostre regioni meridionali. Ero curioso di sapere quanti fossero i piccoli comuni che, al Sud, non superano i cinque mila abitanti. Ebbene su un totale di 2550, i piccoli comuni sono quasi il 50 per cento. Precisamente 1749. Senza entrare troppo nel dettaglio, cito solo le due regioni che hanno, in totale, il numero più basso e quello più alto.
La Campania è al top con 550 comuni. Quelli piccoli sono 339, quelli medio-grandi 211. La Basilicata, ultima nella lista, ha “solo” 131 comuni. Di questi solo 26 sono medio-grandi. Gli altri 105 sono tutti piccoli comuni sotto i cinque mila abitanti. Perché questa premessa? È molto semplice. Io credo che al Sud e soprattutto nelle sue aree interne, si giocheranno il futuro e la tenuta del suo sistema sanitario. La Pandemia ha aperto questo enorme vaso di Pandora che è la sanità nel Mezzogiorno. E se nella prima ondata il sistema non è collassato è perché il Lockdown lo ha impedito. Complice anche la scarsa densità della popolazione, il clima e non ultimo il senso civico e la disciplina dei meridionali, è stato possibile tenere la barra dritta della nave che altrimenti si sarebbe inabissata. Con questa seconda ondata, infatti, siamo in presenza di una pandemia molto aggressiva e pericolosa.
Non solo per la salute del genere umano, ma anche per i suoi tanti risvolti economici e sociali che stanno mettendo a dura prova la tenuta psicologica delle popolazioni. Questa subdola pestilenza, ora che è in corso la seconda ondata, ci obbliga rivoluzionare il nostro approccio alla sanità. Non è più solo una questione di ospedali, grandi o piccoli che siano. Non basta più arrovellarsi sulle liste d’attesa o sui viaggi della speranza per farsi curare a Milano, Padova o Bologna. Qui in gioco è tutto il sistema. Va ripensato dalle fondamenta.
E i suoi punti cruciali non si chiamano più ospedalizzazione o ambulatori o presidi sanitari. No. Gli esperti, già da qualche tempo, ci dicono che soprattutto nelle realtà più piccole e povere del paese si deve incominciare a discutere di medicina di prossimità. Non risolve tutto, ma potrebbe dare uno scossone a un sistema che, sulla carta vorrebbe garantire tutti ma che, di fatto, non garantisce granché. Lascia molto a desiderare quando si tratta di raggiungere territori marginali e le fasce povere della popolazione. La Sanità, a dire il vero, è cambiata già da diversi anni. La Pandemia non ha fatto altro che darci una tremenda randellata. Ha costretto politici, medici, esperti e dirigenti del settore a svegliarsi da un lungo e pericoloso torpore. In tutto questo perché sono di vitale importanza per il settore non solo l’entità e l’efficienza della spesa pubblica, quanto soprattutto il traguardo che si vuole raggiungere. E qui, complice questa tremenda emergenza, potrebbe entrare in scena uno schema completamente nuovo rispetto al passato. Cosa si intende, allora, per medicina di prossimità?
La medicina di prossimità punta soprattutto alla promozione, alla prevenzione della salute e alla riabilitazione delle categorie più fragili. In questo “Format”, se così possiamo definirlo, sono coinvolte tutte le istituzioni presenti sul territorio, le associazioni di volontariato locale ed enti del terzo settore no profit. La medicina di prossimità va intesa, allora, come disponibilità di strutture e professionalità, a supporto delle esigenze mediche, sociali assistenziali dei cittadini, con particolare attenzione per le persone non autosufficienti. Occorrono pertanto infermieri di comunità, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, ambulatori e operatori socio-assistenziali. Con la medicina di prossimità si ribalta lo schema tradizionale dell’ospedalizzazione e si persegue invece un nuovo obiettivo: portare le cure presso il paziente e non viceversa. Non più la corsa verso l’ospedale per il ricovero ma la garanzia di cure e trattamenti che possono essere assicurate presso il proprio domicilio o in strutture di prossimità.
Un dato interessante che dimostra, molto spesso, l’inutilità degli spostamenti, è quello che riguarda gli accessi al pronto soccorso. Stando ai dati dell’Agenzia Governativa che monitora questi flussi e cioè l’Agenas, più del 70% degli accessi al pronto soccorso riguardano codici bianchi e verdi, il 22% gialli e solo l’1,7% rossi. Nel 93,1% dei casi, la permanenza è inferiore alle 12 ore. Che cosa significano questi dati? Che nella stragrande maggioranza dei casi, le cure erogate potevano essere offerte al di fuori degli ospedali, presso strutture di prossimità. Con questa seconda ondata di pandemia abbiamo visto quanta sofferenza ha dimostrato il sistema sanitario italiano e in particolare quello lombardo e campano, dove i ricoveri, i decessi e le terapie intensive rischiano di andare fuori controllo. Ma nei piccoli comuni che sta succedendo? Leggiamo sui giornali che molti pazienti non vogliono essere ricoverati negli ospedali per paura di contrarre il virus. Sono tantissimi gli anziani e i malati che rischiano di rimanere senza cure, perché non ci sono strutture sanitarie di prossimità nei loro comuni.
Nella sanità, purtroppo, il federalismo ha completamento fallito il suo compito. E a dimostrarlo ci sono dati impietosi. Un cittadino che nasce in Campania ha un’aspettativa di vita inferiore di tre anni rispetto a un cittadino che nasce a Bolzano. Uno squilibrio evidente, quello tra nord e sud dell’Italia, testimoniato anche dalla cosiddetta mobilità sanitaria (cioè la decisione dei pazienti di curarsi in regioni diverse da quelle in cui vivono). Un fenomeno che ogni anno sposta quattro miliardi e mezzo di euro dal Meridione verso il Settentrione: “Questo meccanismo -ha fatto notare il Professor Troise, Presidente del sindacato più importante dei medici italiani, l’Anaoo- impoverisce i sistemi di partenza e rinforza quelli di arrivo, che di fatto sono soprattutto Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Non a caso le tre regioni in prima fila nelle richieste di autonomia differenziata. Insomma: se le aree geografiche dello stesso paese presentano differenze così accentuate, è molto grande il rischio che si trasformi in paesi differenti. In Italia la medicina di prossimità è carente. Nel Mezzogiorno poi non ne parliamo.
Questa esigenza di rivedere dalle fondamenta il nostro sistema sanitario nazionale si è fatta sempre più impellente. Ed è esplosa con la pandemia. Pochi mesi fa, sempre il Professor Troise è stato molto chiaro sull’argomento. “Ospedale e territorio – ha spiegato – sono vissuti come soggetti diversi, a volte anche in competizione e contrapposizione l’uno con l’altro. Ma questo non deve accadere, perché sono attori che fanno parte dello stesso sistema. Abbiamo bisogno di una riforma seria delle cure primarie, che veda sorgere presidi territoriali dove convivano più professionalità, cioè medico, infermiere e specialista, e che siano capaci non soltanto di erogare cure, ma anche di fare prevenzione e sorveglianza epidemiologica, quella che è clamorosamente mancata in questa emergenza da coronavirus.”
La nuova frontiera della sanità pubblica, specie al Sud, potrebbe essere proprio la medicina di prossimità. Una rete di uomini, competenze e strutture che coinvolga il volontariato, il terzo settore e le associazioni non profit. Lo Stato non può fare tutto da solo e non c’è più tempo da perdere. I servizi alla persona, l’assistenza domiciliare e il potenziamento dei medici di famiglia dovranno essere i pilastri della medicina di prossimità. Non una semplice riforma, ma una vera e propria rivoluzione che solo la pandemia può indurci a realizzare.