Effetto-Dpcm. Uno si aspetta proteste legittime, visto che siamo ancora in democrazia, rispetto ai contenuti e alle modalità delle ricette governative per arginare il contagio. Oppure atti di condivisione.
E invece, chi protesta e per cosa protesta? In primis, le categorie giustamente penalizzate dalle scelte non razionali e poco eque (ristoratori, esercizi commerciali etc); ma soprattutto (questo è l’aspetto disarmante), le palestre, le madri per i figli che vanno a scuola, la gente che vuole fare gite e correre sui parchi.
Perché come popolo non si riesce mai a dare una risposta collettiva? Uno scatto che abbia a che vedere con una visione generale delle cose, della res publica?
“Idiota” è una parola che attualmente fa rima con un’offesa tosta e irreversibile. Invece, nel suo significato etimologico, vuol dire “persona incapace di avere un’idea pubblica, generale della vita”; persona che si ferma e assolutizza unicamente il proprio particolare, pensando che sia l’unica verità.
Non è una novità. L’utile, l’interesse, ciò che riguarda soltanto l’individuo, la società materiale, artificiale, in luogo di quella naturale, sono diventati da secoli il Dna della civiltà moderna. In Italia, poi, il “familismo amorale” (tutto quello che si coltiva nel privato è buono, il rapporto col mondo esterno, dallo Stato alla comunità, è e deve essere predatorio, indifferente, ostile), è una nostra anomalia-peculiarità. Una nostra prerogativa. E se la globalizzazione ha dato la prima forte spinta alla desocializzazione (uomini apolidi, senza identità storica, culturale, religiosa); la rete-sovrana ha dato il carico da undici (tutti connessi nell’universo mediatico, ma tutti sconnessi con la realtà), il Coronavirus ha completato l’opera, tirando fuori le mascherine che già erano in noi. Esseri soli, abbandonati, impauriti e colpevolizzati da un sistema che si appresta a strutturarsi in direttorio, con poteri speciali.
Siamo da tempo un popolo di individualisti (individualismo di massa), di opportunisti; un popolo spezzettato, segmentato, ripartito in aspettative corporative. Dopo il ’68 poi, abbiamo cancellato ogni residuo rispetto per l’autorità, il pubblico, la gerarchia, lo Stato, le istituzioni, il bene comune.
Nella prima fase del lockdown, va ammesso, sembrava esserci stata un’inversione di tendenza: l’occasione per riscoprire ciò che conta veramente (le persone, il prossimo, le cose importanti, le relazioni famigliari). E invece no. Subito dopo la paura iniziale, siamo arrivati a riproporre in modo isterico tutte le nevrosi e le pulsioni dell’io, precedenti al virus. Ci indigniamo e rivendichiamo soltanto la nostra libertà fisiologica, non etica, politica, costituzionale. Cioè, quando ci impediscono di correre sui prati, di bere, mangiare, andare in palestra. Insomma, dedicarci alle nostre abituali dipendenze e necessità. E’ la differenza tra i concetti greci di “bios” (libertà nella relazione) e “zoe”, libertà animale, primordiale.
Come mai ci siamo ridotti a questo? E torna il discorso sull’utopia illuminista. Siamo, infatti, all’ultimo stadio del suo fallimento. Quello che prima ci diceva la religione, quello che ci diceva Dio, non potendolo più dire l’uomo, oggi ce lo dice il virus: ci sono limiti, la vita presenta rischi, è una variabile indipendente, nasciamo, cresciamo e moriamo, e la libertà è pericolosa, ma comunque meglio di una sicurezza, di una schiavitù garantita. E noi per cultura atea, materialista, laicista, o superomista, umanistica, consumistica, non lo accettiamo. Non abbiamo più gli strumenti culturali per governare e sublimare le nostre ansie.
Da una parte, pretendiamo di fare ciò che ci pare (la società delle pulsioni dell’io); dall’altra, pretendiamo che lo Stato (e oggi i soloni in camice bianco), ci preservi dal male, dai problemi, dalla morte, elimini il dolore, ci renda asettici, disinfettati, immortali. Una terra felice, senza i terremoti, senza le malattie, senza i lutti. E quando ci cimentiamo con la realtà, con la verità, diventiamo isterici, ci scopriamo fragili.
E’ perché, lo ripetiamo, abbiamo perso la dimensione spirituale della vita che prima era affidata alla religione. Ossia, la proiezione verso una realtà trascendente che ci aiutava a relativizzare, a spiegare le prove e le sofferenze.
Poi, è arrivata la mistica dell’onnipotenza illuminista, l’uomo che si crede onnipotente, eterno, invincibile (grazie alla scienza e alla medicina può tutto). L’uomo che si affida ai nuovi sacerdoti, e quando scopre che tutto è fallace e meramente in progress (si tratta di discipline sacrosante, ma empiriche e quindi, soggette sempre a verifica e mutamenti), sono dolori.
E allora i popoli che non hanno più identità, fedi e certezze superiori, e che non sanno affrontare le difficoltà, cercano risposte sbagliate, vie comode, strade facili.
E ricorrono ai paradisi di carta e di plastica, che i governi conoscono bene nella loro falsità e caducità, ma che contribuiscono ad eternarli per mere ragioni di convenienza e consenso politico.
Non esiste una libertà che non sia pericolosa: certi miti progressisti (io sono ciò che voglio, ciò che penso, ciò che consumo, ciò che desidero, ciò che mi sento di essere), ci hanno allontanati dalla realtà, creando un’illusione di perfezione, felicità e intoccabilità.
Sparita la dimensione spirituale, è rimasta la religione del corpo. L’ultima fede. Il salutismo, i runner, i vegani, gli animalisti, gli ambientalisti senza percezione e senso del Creatore, sono i figli di questa impostazione. Sono i surrogati moderni della religione.
La loro rabbia contro il Dcpm di Conte, non riguarda la realtà oggettiva, ma la loro realtà soggettiva. Soffrono soltanto la compressione, la limitazione delle loro pulsioni.
Almeno, e solo da questo punto di vista, il virus e le ricette di Conte, potrebbero essere pedagogiche. Far capire che oltre le palestre, i bar, i ristoranti, il bere e il correre sui prati, c’è altro. C’è ben altro.
(Lo_Speciale)