Nell’attesa di un vaccino previsto per i prossimi mesi, l’Europa e l’Italia debbono trovare il modo di fronteggiare la nuova offensiva del coronavirus.
Gli strumenti per farlo sono sempre quelli della prima fase del morbo, quella di febbraio e marzo, distanziamento, mascherine, lavaggi frequenti delle mani, esclusione di feste affollate e di assembramenti.
Il nuovo DPCM si muove sempre su questa falsariga con alcune trovate empiriche, che danno il senso dello smarrimento che afferra anche chi ha il dovere di decidere in una situazione nella quale è imperativo coniugare il ricorso al rigore con la necessità di non favorire una nuova fase critica per l’economia, stavolta devastante.
Ci sono numeri, prima che criteri, nelle prescrizioni che sembrano rimandare a pratiche esoteriche: perché 6 e non 7 intorno al tavolo di un ristorante, perché dopo le 18 al bar non sarà possibile sorseggiare un caffè in piedi, perché puntare tanto sul lavoro a domicilio considerando quanto l’esperimento precedente abbia comportato ulteriori vuoti e segnali di inefficienza nel rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione?
Sono interrogativi legittimi, ma ancor più legittimo ed importante è valutare come, fra rimpalli di responsabilità, fra i vari livelli istituzionali si sia fatto ben poco, nella spensierata estate trascorsa, per irrobustire il sistema sanitario, migliorare i trasporti urbani, attrezzare le scuole in termini di dotazioni strumentali e di personale.
Sono, questi, vari problemi lasciati irrisolti e al cittadino normale poco importa se la colpa sia delle Regioni, dei Comuni o del Governo.
Sarebbe serio e necessario che su queste questioni maggioranza ed opposizione dialoghino non trascurando lo spettro possibile di un inverno freddissimo e tormentato sul piano della coesione sociale.