L’inarrestabile diffusione di internet e delle tecnologie digitali ha inevitabilmente cambiato la vita di famiglie, aziende ed enti pubblici.
Le società si muovono in rete e per essere competitivi, per agevolare lo sviluppo economico e sociale di un Paese, è indispensabile ultimare il processo di digitalizzazione.
Secondo le stime del World Economic Forum, già nel 2022 circa il 60% del Pil mondiale sarà prodotto dal mercato digitale. La ricchezza di un Paese, pertanto, dipenderà dalla misura e dalla capillarità di servizi e processi digitali introdotti.
È assolutamente necessario che questa trasformazione abbracci chiunque, ma il passo decisivo spetta alla Pubblica Amministrazione. Sul piano legislativo, con il Codice dell’Amministrazione Digitale (D.lgs. n. 82/2005, più volte modificato), l’Italia ha cercato di organizzare la materia che riguarda le novità tecnologiche dell’ambito pubblico, mentre su scala sovranazionale ha aderito agli obiettivi 2020 indicati dall’Ue nell’Agenda digitale.
Sforzi normativi a cui si sono accompagnate ingenti risorse economiche, quantificabili in più di 27 miliardi: nel quinquennio 2013-2017 la spesa media annua per lo sviluppo dell’ICT nella PA ammonta a circa 5,5 miliardi di euro.
Quasi la metà del volume di spesa complessivo risulta generato dalle Amministrazioni Centrali (in media 2,6 miliardi di euro annui in termini assoluti), all’interno delle quali sono soprattutto i ministeri e gli enti di previdenza a registrare gli importi medi più rilevanti. A seguire, la spesa degli enti territoriali incide per circa il 25% del totale (1,4 miliardi di euro annui).
I settori più penalizzati sono l’Istruzione, in cui confluiscono scuola, università e ricerca (con solo 354 milioni di euro) e la Sanità (1,2 miliardi di euro).
La produzione normativa e le risorse finanziarie non hanno dato i frutti sperati.
Da uno studio realizzato a luglio 2020 da Uil ed Eures (Istituto per le ricerche economiche e sociali), “Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e competitività del sistema Italia”, emerge l’arretratezza del nostro Paese, spesso causa anche di diseguaglianze e squilibri dal punto di vista della giustizia sociale.
La Commissione Europea ogni anno conduce un’analisi comparativa mediante l’Indice Sintetico di Digitalizzazione dell’Economia e della Società (Indice DESI) e, sulla base di vari indicatori ricollegabili a 5 assi tematici (connettività, capitale umano, uso di internet da parte dei cittadini, integrazione e sviluppo delle tecnologie digitali in ambito aziendale e digitalizzazione dei servizi pubblici), mette a confronto le performance dei Paesi Ue. Lo studio di quest’anno rileva che l’Italia si colloca 25esimo nella graduatoria europea, con un valore dell’indice pari a 43,6/100 (52,6 la media Ue 28), regredendo, peraltro, di 2 posizioni rispetto al 2019.
Volendo prendere in considerazione solo la trasformazione digitale della PA, l’Italia raggiunge la 19esima posizione (con un punteggio pari a 67,5/100 a fronte di 72 della media Ue 28).
Secondo quanto emerge dal report Uil-Eures, il motivo per cui tali obiettivi ancora non sono stati raggiunti è da individuare nella difficoltà di utilizzare le nuove procedure. Queste ultime sono state acquistate e implementate solo sul piano formale, ma non supportate in fase di riconversione e formazione del personale dipendente.
“Davvero preoccupante, – ha sottolineato il Segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri – poi, è il fatto che neanche la metà delle Amministrazioni Locali sia in grado di gestire interamente da remoto almeno uno dei 24 servizi più frequentemente erogati. Non solo, ben il 44,9% di queste Amministrazioni protocolla ancora oltre la metà della documentazione prodotta attraverso procedure di tipo analogico”.
La disaggregazione territoriale segnala una forte disomogeneità: nelle regioni del Nord il livello di digitalizzazione dei servizi offerti dai comuni appare nettamente superiore a quello delle regioni del Sud. A presentare le maggiori criticità, inoltre, sono i comuni più piccoli: tra i quasi 2 mila comuni italiani con meno di mille residenti, infatti, solo uno su tre (33,7%) ha interamente digitalizzato almeno un servizio al pubblico.
In linea con la media europea appare, invece, l’offerta dei servizi pubblici online, misurata attraverso la quota di “passaggi” che i cittadini possono effettuare da remoto per disporre dei principali atti amministrativi: in questo caso troviamo l’Italia in 12esima posizione. Rispettivamente al sesto e all’ottavo posto si colloca, poi, per l’offerta dei servizi per l’imprenditoria disponibili online e la quota di open data accessibili dai portali informatici delle Amministrazioni pubbliche.
Vista dalla parte del cittadino italiano che vorrebbe usufruire dei servizi digitali della Pubblica amministrazione centrale o locale, l’andamento risulta decisamente negativo: le Amministrazioni pubbliche che consentono l’accesso ai servizi on line attraverso il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) sono solo 4370, rispetto a un target per il 2020 che doveva essere di almeno 10 mila. Le transazioni effettuate attraverso il sistema PagoPA sono state 70,7 milioni, contro un obiettivo previsto per quest’anno di 150 milioni di operazioni. Le regioni che hanno messo a disposizione il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) sono 14 (l’obiettivo era 20, cioè la totalità), ma i cittadini che hanno attivato questo servizio sono solo il 32,9% degli assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale.
Il nostro Paese è l’ultimo nella graduatoria Ue 28 per l’utilizzo dei servizi di eGovernment: solo il 32,3% dei cittadini (15-74 anni) utilizza, infatti, i sistemi telematici per interfacciarsi con la PA, a fronte del 67,3% della media Ue. Andamento che si conferma, secondo dati Eurostat, anche nell’utilizzo quotidiano di internet da parte dei cittadini, pari al 73% per l’Italia, a fronte di una media Ue del 79%, collocando il nostro Paese al 21esimo posto.
“Alla luce di questi dati – ha precisato il leader della Uil – chiediamo al Governo e alla politica di decidere che la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione diventi uno dei principali asset strategici per l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund. È necessario investire e formare perché su questo tema esiste, evidentemente, anche un problema di tipo culturale”.