Appartengo alla generazione di mezzo, nata in analogico e formatasi in digitale durante gli studi universitari; di quelle che, per intenderci, da ragazzina usava le tessere telefoniche della SIP e all’università girava con un cellulare grande quanto una clutch da sera. Fatico a ricordare come fosse la mia vita prima dell’iperconnessione che il digitale ha imposto; oggi la mia giornata lavorativa inizia con la rassegna stampa e il monitoraggio dei social network, senza mi sembrerebbe di affrontare il lavoro che mi si presenterà, priva di tutti gli strumenti necessari e difatti, il concetto di digital lobbying si è ormai imposto anche qui in Italia.
Il mondo dei new e social media evolve costantemente, a ritmi sempre più stretti, mutando funzioni, ampliando potenzialità, ricavando dai suoi stessi utenti indicazioni d’uso che verranno sviluppate per generare nuovi metodi di profitto. Si, perché STARE nel digitale, significa tendenzialmente stare in un mondo di produttività che genera business: quando diciamo genericamente “digitale”, stiamo in realtà indicando un universo composito che, ben oltre gli smartphone e i social network, include gli open data, i cookies per la profilazione dei comportamenti dei consumatori, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e aumentata, applicazioni per le più svariate finalità e rivoli e rivoli di ulteriori costellazioni digitali ancora da comprendere appieno o da scoprire.
La partita del digitale, che per sua natura tende ad essere immediatamente più misurabile e quindi sanzionabile, sta nel bilanciamento continuo di profitto e diritti dei suoi utenti, passando per un uso che tenga conto anche dei grandi temi sociali ed etici che attraversano la nostra umanità. Ben consapevoli di queste attenzionalità, i big del digitale investono nella ricerca continua, in una logica quasi di start up aziendale diffusa.
Così Facebook, casa madre, annuncia, sollecitata da gruppi di pressione sui diritti civili, che studierà come risolvere il modo in cui gli algoritmi filtrano notizie e suggerimenti di consumo verso le minoranze etniche (si veda l’articolo del collega Alongi), mentre Facebook Italia investe in coloro che saranno i futuri fruitori dei suoi servizi e già da fine 2018 ha inaugurato a Roma Binario F spazio che offre gratuitamente formazione ad aziende ma anche a giovani studenti e ONG.
E quante app si stanno rivelando utilissimi supporti per l’economia circolare? Una tra le varie, mi fu fatta scoprire un annetto fa da una cara amica e quando inizia a mia volta a parlarne in giro, si diffuse a macchia d’olio nel gruppo dei miei amici: Too good to go aiuta a ridurre gli sprechi alimentari consentendo l’acquisto del cibo fresco invenduto di giornata o vicino alla data di scadenza, presso ristoranti, panifici, frutterie, alimentari, attraverso box acquistabili sulla app ad 1/3 del valore che avrebbero i prodotti venduti in negozio. Come risparmiare emissioni di CO2, facendo business.
Se le aziende hanno colto da tempo l’importanza di formare al digitale e della ricerca continua, discorso a sé fanno i servizi di pubblica utilità. L’Italia vive un gap digitale che lascia indietro intere regioni per mancanza di infrastrutture adeguate, per basso o nullo livello di competenza digitale, per mancanza di investimenti adeguati in formazione sia dei cittadini che dei dipendenti di P.A.
Chiamato a cercare di colmare questo divario che frammenta l’Italia, è il Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, che sin dall’inizio del suo mandato ha dimostrato grande dedizione e apertura verso tutte le parti sociali coinvolte in questo processo ma che di fatto si trova a guidare un Dipartimento a supporto del Presidente del Consiglio e che non trova in Parlamento commissioni permanenti specificatamente dedicate alla materia di sua competenza, ad oggi trattata da più commissioni a seconda dello specifico caso.
Possibile che un mondo tanto variegato, complesso e strategico, su cui si gioca il futuro, come quello del digitale non abbia specifiche commissioni permanenti competenti in Parlamento? La storia ci insegna che fino a che un tema non diviene all’ordine del giorno, non gli verrà mai data l’attenzione che merita e per essere all’ordine del giorno, bisogna che il legislatore lo conosca profondamente, ne comprenda i linguaggi e i possibili sviluppi e scenari futuri. Qui si torna alla questione formazione, in base ad essa scegliamo di dare più o meno valore ad un messaggio, più o meno forza per divulgarlo e per rendere concreta l’idea che quel messaggio trasmette. Riusciremo a comprenderlo?