Di lui sono noti soprattutto la raffinata napoletanità, l’eterna amicizia con Renzo Arbore e i sottili aforismi. Uno fra tutti, «La vita potrebbe essere divisa in tre fasi: Rivoluzione, Riflessione e Televisione. Si comincia con il voler cambiare il mondo e si finisce col cambiare i canali».
Luciano De Crescenzo ci ha lasciati, a novant’anni, con arguta e silente flemma, lontano dai fragorosi scenari illuminati dalle luci della ribalta. L’eclettica bacheca su cui ha costruito la sua carriera ha attraversato il tempo senza mai apparire anacronistico. Istrione ed argomentatore, la sua macchina attoriale era in grado di reggere magnificamente la scena davanti a qualunque pubblico, implacabilmente ipnotizzato.
La sua Napoli era la Musa dalla quale elargiva pensieri a braccio e implacabilmente strutturati, che diventavano perle di carattere. Una Napoli più appartenente alla sfera del concreto e del razionale che ai domini del visionario e dell’onirico.
Un Maestro della nostra cultura che, prima di dedicarsi alla narrativa, alla saggistica ed allo spettacolo, svolse la professione di ingegnere. Un Ambasciatore italiano nel mondo che lo ha omaggiato traducendo le sue opere – oltre cinquanta libri tra cui “Così parlò bellavista” e “Storia della fiolosofia greca” – in diciannove lingue, diffondendole in venticinque paesi.