C’è un modo di raccontare il potere che punta alla solennità, ai numeri, alle mappe e ai toni gravi, e ce n’è un altro che lo espone per ciò che è quando la messa in scena si incrina. Nel bilancio di quest’anno, tra promesse di controllo e narrazioni di forza, emerge una figura che pretende di apparire onnipotente ma finisce per assomigliare a una caricatura di se stessa: tronfia, autoreferenziale, sospesa più sulla retorica che sulla realtà. È da questa distanza tra ambizione e risultato che occorre partire per capire cosa resta davvero del racconto ufficiale.
Negli ultimi mesi, mentre a Washington e in alcune capitali europee si torna a parlare con insistenza di una possibile “pace di compromesso” con il Cremlino, Vladimir Putin ha nuovamente chiarito che le sue ambizioni vanno ben oltre qualsiasi soluzione limitata. In un discorso dal tono apertamente bellicoso pronunciato al Ministero della Difesa russo il 17 dicembre, il presidente russo ha ribadito che gli obiettivi massimalisti della guerra contro l’Ucraina saranno raggiunti “incondizionatamente”. Ancora una volta, il conflitto viene presentato come una crociata storica, necessaria a invertire quella che Putin considera la ritirata post-sovietica della Russia: una narrazione epica che serve soprattutto a mascherare l’assenza di risultati decisivi sul campo.
Questa retorica non è nuova. Da anni Putin giustifica l’invasione dell’Ucraina con lunghi richiami storici, arrivando a paragonarsi apertamente a Pietro il Grande e alle guerre di conquista dell’Impero zarista. Il passato, in questo racconto, non è uno strumento di comprensione ma un fondale scenografico, utile a trasformare un’aggressione militare in una missione inevitabile. Tuttavia, in un momento in cui l’Europa guarda sempre più a est con inquietudine, vale la pena chiedersi che cosa intenda davvero il Cremlino quando parla di “terre storicamente russe” e quanto questa formula volutamente ambigua possa essere spinta oltre.
L’interpretazione più prudente suggerirebbe che il riferimento riguardi la parte del Donbas ancora sotto controllo ucraino, un’area fortificata e strategica che Mosca indica come condizione per un cessate il fuoco. Ma le dichiarazioni contraddittorie dei vertici russi, unite ai ripetuti riferimenti di Putin alla “liberazione inevitabile del Donbas e della Novorossiya”, lasciano intravedere un disegno più ampio, in cui i confini vengono deliberatamente sfocati per tenere aperta ogni opzione.
Il termine Novorossiya, “Nuova Russia”, appartiene al lessico dell’epoca zarista e indicava nel XVIII e XIX secolo vaste aree dell’Ucraina meridionale e orientale allora soggette all’Impero russo. Riesumato dopo il 2014, è oggi uno dei pilastri della narrazione imperialista del Cremlino. Non esiste una definizione condivisa dei suoi confini, e questa vaghezza non è casuale: consente di presentare come difesa storica ciò che, nella pratica, equivale a una rivendicazione territoriale potenzialmente illimitata.
C’è poi la questione centrale di Kyiv. Nella mitologia storica russa, la capitale ucraina è descritta come la “madre delle città russe” e la culla spirituale dell’Ortodossia. Putin ha più volte evocato questo ruolo nei suoi scritti e discorsi, negando implicitamente la legittimità dello Stato ucraino. In questa visione, il controllo di Kyiv non è un obiettivo strategico tra gli altri, ma il simbolo stesso della restaurazione imperiale. Senza Kyiv, il racconto della “riunificazione delle terre storiche” resterebbe incompleto, e la narrazione perderebbe coerenza prima ancora che forza.
Alla luce delle dichiarazioni pubbliche e dei testi programmatici di Putin, appare dunque plausibile concludere che, nella sua interpretazione, le “terre storicamente russe” coincidano con l’intero territorio ucraino. In occasione del Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, affermò che russi e ucraini sono “un solo popolo” e che, in questo senso, “tutta l’Ucraina è nostra”. Non una provocazione estemporanea, ma una sintesi brutale di un progetto che da tempo viene preparato sul piano ideologico.
La vera domanda, allora, è se questa agenda imperiale si fermi ai confini ucraini o se li superi. Dal punto di vista geografico e ideologico, la risposta sembra già contenuta nelle parole di Putin, che ha definito l’Unione Sovietica come la “Russia storica” e il suo crollo come una disintegrazione di uno Stato millenario. In questa lettura, la perdita di controllo non è un fatto storico, ma un’ingiustizia da correggere.
L’Ucraina occupa un posto centrale in questa ossessione imperiale, ma sarebbe un errore pensare che la sua sottomissione possa bastare. Gli stessi argomenti pseudo-storici utilizzati contro Kyiv potrebbero essere applicati a molti altri Paesi un tempo dominati da Mosca. La frase spesso attribuita a Putin — “dove mette piede un soldato russo, quello è nostro” — non è solo una provocazione: è la traduzione più cruda di una visione del mondo in cui il potere si misura in controllo territoriale e la storia serve a giustificarlo.
Sempre più governi occidentali iniziano a prendere sul serio questa minaccia. Valutazioni dell’intelligence statunitense indicano che Putin non ha abbandonato l’obiettivo di conquistare tutta l’Ucraina e di recuperare porzioni d’Europa appartenute all’ex impero sovietico. Le difficoltà militari russe emerse dal 2022 vengono spesso citate come prova di un limite strutturale, ma questa lettura rischia di confondere l’inefficienza con l’assenza di ambizione. Finché la narrazione interna regge, il progetto resta politicamente spendibile.
Se Kyiv dovesse cadere, l’Europa si troverebbe davanti a una sfida per la quale oggi non è preparata. L’esercito ucraino, ormai tra i più esperti del continente, verrebbe assorbito nella macchina bellica russa, rafforzando un sistema già profondamente militarizzato. In questo contesto, immaginare un improvviso ritorno alla moderazione significherebbe continuare a credere alla messa in scena.
Il contesto geopolitico attuale offre inoltre a Putin un’occasione favorevole: l’incertezza sull’impegno statunitense, le divisioni europee e una guerra ibrida già in corso contro il continente. Putin non segue una tabella di marcia rigida, ma una logica opportunistica, in cui ogni successo alimenta il successivo. Pensare che concessioni territoriali possano fermare questa dinamica significa scambiare la retorica per realtà. Una vittoria russa a Kyiv non chiuderebbe il conflitto: toglierebbe semplicemente l’ultimo velo alla sua vera natura.



