La Bielorussia ha liberato 123 prigionieri politici, tra cui il premio Nobel per la Pace Ales Bialiatski e la leader delle proteste del 2020 Maria Kalesnikava, in quello che le organizzazioni internazionali definiscono il più significativo gesto di apertura del regime di Alexander Lukashenko da oltre un decennio. La scarcerazione, confermata da gruppi per i diritti umani e dai media statali, è parte di un accordo negoziato con Washington che prevede l’alleggerimento delle sanzioni statunitensi sul potassio, uno dei settori chiave dell’economia bielorussa. Lukashenko, al potere dal 1994 e accusato di aver represso brutalmente le proteste seguite alle controverse elezioni del 2020, ha giustificato i provvedimenti come un “atto di clemenza”. Ma la portata politica dell’operazione è evidente: tra i liberati figurano alcuni dei simboli più riconoscibili dell’opposizione, incarcerati con accuse di “estremismo” e “terrorismo” che le ONG hanno sempre definito motivate politicamente. Secondo fonti statunitensi, l’accordo è stato finalizzato dopo due giorni di colloqui a Minsk tra Lukashenko e l’inviato speciale americano, che ha confermato la decisione di allentare le restrizioni sul potassio in cambio della liberazione dei detenuti più emblematici. Per Washington, si tratta di un passo “costruttivo”, pur senza rinunciare alle critiche sullo stato dei diritti umani nel Paese. La notizia ha suscitato reazioni contrastanti tra gli attivisti bielorussi in esilio: sollievo per il ritorno in libertà di figure come Bialiatski, ma anche cautela di fronte a un regime che in passato ha alternato aperture tattiche a nuove ondate repressive. Resta inoltre incerto il destino di centinaia di altri prigionieri politici ancora detenuti. L’operazione segna comunque un raro momento di distensione tra Minsk e Washington, in un contesto geopolitico dominato dall’alleanza sempre più stretta tra Bielorussia e Russia.



