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Sanae Takaichi, Primo Ministro del Giappone

Cina e Giappone, la tensione globale sale

domenica, 14 Dicembre 2025
5 minuti di lettura

Mentre l’attenzione europea resta concentrata sul conflitto in Ucraina, dall’altra parte del mondo le tensioni tra Cina e Giappone stanno crescendo in modo significativo. L’impressione è quella di assistere a un progressivo deterioramento dei rapporti bilaterali, innestato su un contesto già fragile e reso ancor più volatile dalla crescente centralità di Taiwan nelle dinamiche di sicurezza dell’area indo-pacifica.

A innescare l’ultimo picco diplomatico sono state le dichiarazioni della premier giapponese Sanae Takaichi, secondo cui un eventuale attacco cinese a Taiwan rappresenterebbe una “minaccia alla sopravvivenza del Giappone”, formula che potrebbe aprire la strada, in base alla legislazione sulla “minaccia esistenziale”, a un intervento delle Forze di Autodifesa. Takaichi, ammiratrice della Thatcher, promuove da anni un rafforzamento della sicurezza regionale. La sua ascesa si inserisce in una fase in cui la nuova maggioranza del Partito Liberal Democratico ha spostato l’asse del governo verso una linea più conservatrice e assertiva. Figura di lunga esperienza nell’ala destra del LDP, già ministra degli Interni e stretta alleata dell’ex premier Abe, Takaichi incarna la visione strategica che punta a rafforzare la deterrenza, normalizzare lo strumento militare e superare gradualmente i limiti costituzionali del dopoguerra. La sua leadership, sostenuta da un blocco parlamentare coeso, ha accelerato la trasformazione dottrinale del Giappone, rendendo più strutturale il cambiamento nell’approccio alla sicurezza regionale.

Questa posizione è geograficamente e strategicamente comprensibile. Taiwan dista appena 110 chilometri dalle isole Yonaguni, il punto più occidentale del Giappone. Un controllo cinese su Taiwan significherebbe per Pechino la capacità di proiettare potenza direttamente sulle rotte marittime vitali per l’economia giapponese, che dipende per oltre il 90% dalle importazioni per le sue risorse energetiche. Inoltre, diverse isole giapponesi – dalle Ryukyu a Okinawa – si troverebbero esposte a una pressione militare diretta.

La questione taiwanese ha quindi per il Giappone una dimensione strategica che va ben oltre la solidarietà democratica o l’allineamento con Washington. È una questione di sicurezza nazionale nel senso più concreto del termine.

Le parole della premier hanno comunque provocato la reazione più dura di Pechino degli ultimi anni. La Cina ha infatti avviato una procedura di protesta diplomatica particolarmente severa, che ha incluso: convocazione d’urgenza e ripetuta dell’ambasciatore giapponese; nota di protesta ufficiale con linguaggio insolitamente duro; accuse pubbliche di “superamento di tutte le linee rosse”; avvertimenti ai cittadini cinesi sull’andare in Giappone; accuse a Tokyo di “militarizzare deliberatamente la regione”.

Questo tipo di comunicazione non è solo retorica, ma serve a segnalare al Giappone (e indirettamente agli Stati Uniti) che la questione di Taiwan verrà difesa da Pechino con il massimo livello di determinazione.

In realtà negli ultimi anni, e con particolare intensità negli ultimi mesi, la Cina ha adottato nei confronti del Giappone una postura sempre più aggressiva, che combina pressioni militari, coercizione economica e guerra psicologica. Pechino considera Tokyo non soltanto un alleato fondamentale degli Stati Uniti nella regione indo-pacifica, ma anche un ostacolo diretto alla sua ambizione di ridisegnare l’ordine strategico dell’Asia orientale. La competizione non si manifesta solo attorno a Taiwan, ma lungo un arco geostrategico più ampio che va dalle isole Senkaku al Mar Cinese Orientale, passando per le rotte commerciali che sostengono le due economie.

Sul piano militare, la Cina ha intensificato in modo significativo le operazioni nelle vicinanze dell’arcipelago giapponese. Le incursioni di aerei da combattimento nella zona di identificazione di difesa aerea del Giappone hanno raggiunto livelli senza precedenti dalla fine della Guerra Fredda e le navi della Guardia Costiera e della Marina cinese mantengono ormai una presenza quasi continuativa nelle acque attorno alle Senkaku.

Secondo Tokyo, queste attività costituiscono una forma di pressione “a bassa intensità ma costante”, progettata per normalizzare la presenza cinese in aree che il Giappone considera parte del proprio territorio sovrano.

Parallelamente, Pechino ricorre con crescente frequenza a strumenti di coercizione economica e tecnologica, minacciando restrizioni su terre rare e componenti industriali critici, e alimentando una narrativa mediatica ostile che dipinge il Giappone come un Paese in “ritorno al militarismo” e semplice avamposto strategico degli Stati Uniti. L’insieme di queste mosse delinea una strategia proattiva che mira a erodere progressivamente la libertà di manovra di Tokyo nel proprio spazio strategico immediato e a costringere il Giappone ad accettare un’Asia orientale modellata secondo le priorità cinesi.

Tutto questo, mentre sul piano operativo, il Ministero della Difesa giapponese ha denunciato negli ultimi mesi una serie di incidenti ad alta tensione: aerei cinesi hanno effettuato “radar lock-on” contro velivoli delle Forze di Autodifesa, cioè l’aggancio dei sistemi di tiro; navi della Marina cinese hanno navigato a ridosso di Okinawa e vicino alle isole Senkaku, penetrando nella zona economica esclusiva giapponese. Tokyo considera questi episodi come fattori di rischio immediato per possibili incidenti militari non intenzionali.

Questa crescente tensione si inserisce in un contesto in cui il Giappone ha avviato il più ampio riarmo dalla Seconda guerra mondiale, proprio perché sente su di sé incombere la minaccia di una Cina sempre molto aggressiva nei suoi confronti.

Negli ultimi anni Tokyo ha: quasi raddoppiato il budget della difesa, con l’obiettivo dichiarato di portarlo al 2% del PIL. Inoltre attraverso leggi speciali solo quest’anno il Giappone ha stanziato 60 miliardi di USD e all’incirca altrettanto verrà speso nei prossimi tre anni; sviluppato capacità di “counterstrike” (atti di rappresaglia a distanza) attraverso missili a lungo raggio, superando un tabù strategico durato decenni; programmato il dispiegamento di nuovi sistemi missilistici sulle isole Nansei, incluse quelle più vicine a Taiwan; ampliato la flotta navale con cacciatorpedinieri AEGIS, sottomarini avanzati e navi porta-elicotteri convertibili per il trasporto di F-35; introdotto nuovi caccia F-35, potenziato le unità antiaeree e investito in cyber-difesa. Infine, fatto importante, ha creato un Comando Congiunto di controllo delle operazioni interforze, di recente istituzione, concepito per interoperare direttamente con il Pacific Command degli Stati Uniti.

Si tratta di un cambiamento epocale per un Paese che, per decenni, aveva mantenuto un profilo strettamente difensivo. Tokyo si sta riconfigurando come potenza regionale attiva, capace di deterrenza e non più solo di difesa passiva.

Il governo giapponese continua a dichiarare che la posizione ufficiale sullo status di Taiwan non è cambiata, ma la combinazione tra riforme legislative, riarmo e nuova postura geopolitica mostra chiaramente come il Paese stia ridefinendo il proprio ruolo strategico nell’Asia orientale.

Sul fronte americano, la National Security Strategy conferma l’importanza di Taiwan per la stabilità regionale e rafforza il coordinamento tra Washington e Tokyo.

Nonostante le tensioni, Cina e Giappone restano fortemente interdipendenti sul piano economico. Questa relazione commerciale, che negli anni ha funzionato come fattore stabilizzante, oggi rischia di essere insufficiente a compensare lo scontro ideologico e strategico, soprattutto in una fase in cui Pechino mira a ridurre le vulnerabilità esterne e il Giappone cerca di emanciparsi dall’immagine di potenza puramente commerciale.

In ultimo la Corea del Nord continua a rappresentare la minaccia più immediata per Tokyo a causa dei continui lanci missilistici che hanno sorvolato il Paese. Tuttavia la verità è che la Corea del Nord, pur essendo pericolosa, è diventata una variabile “gestibile”, quasi routinaria per non dire una scusa per giustificare l’imponente riarmo e il cambio di postura in senso assertivo del Giappone.

La vera frattura tra Cina e Giappone riguarda invece l’assetto del potere in Asia e il ruolo del Giappone nella strategia americana.

Sullo sfondo, pesano ancora le ferite storiche del periodo coloniale giapponese in Cina e Corea. A ogni escalation, questi aspetti della memoria collettiva riemergono, alimentando la narrativa interna e irrigidendo le posizioni politiche.

Quel che emerge è che il Giappone sta progressivamente abbandonando la postura pacifista del dopoguerra per assumere un ruolo più assertivo nella regione, determinato a costruire una propria credibile capacità di deterrenza in un contesto strategico sempre più competitivo. La tensione tra Cina e Giappone non è semplicemente un conflitto regionale, ma uno dei fronti principali della più ampia competizione per l’ordine mondiale del XXI secolo. E a differenza della Guerra Fredda, che si svolse tra potenze geograficamente distanti, questa si gioca in uno spazio ristretto dove incidenti e miscalcoli potrebbero rapidamente degenerare in qualcosa di incontrollabile.

Paolo Falconio

Paolo Falconio

Membro del Consejo Rector de Honor e conferenziere de la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)

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