Il Cile si prepara a eleggere il presidente più di destra dai tempi di Augusto Pinochet e lo fa in un clima di forte polarizzazione politica e sociale. I sondaggi indicano in testa José Antonio Kast, leader del Partito Repubblicano e volto dell’estrema destra cilena, che ha saputo capitalizzare il malcontento diffuso e la richiesta di ordine e stabilità dopo anni di proteste e tensioni. Kast, già noto per le sue posizioni dure su immigrazione, sicurezza e identità nazionale, ha dichiarato di voler concedere la grazia ai condannati per crimini contro l’umanità commessi durante la dittatura militare, a condizione che siano anziani o gravemente malati, una proposta che ha suscitato forti reazioni e che la sua avversaria Jeannette Jara, candidata comunista, ha respinto con fermezza. Il ritorno al voto obbligatorio ha portato alle urne l’85% degli aventi diritto al primo turno, un dato che ha rafforzato la legittimità del processo elettorale e che ha favorito la mobilitazione di un elettorato conservatore attratto dalla promessa di “mano dura”. Kast, arrivato secondo al primo turno, ha rapidamente consolidato il sostegno degli altri candidati di destra, trasformando il ballottaggio in una sfida che va oltre i programmi e diventa un confronto diretto con la memoria storica del Paese. Mai dalla fine della dittatura del 1990 un candidato così esplicitamente legato all’eredità di Pinochet ha avuto possibilità concrete di vittoria e la sua ascesa solleva interrogativi sulla tenuta democratica e sulla capacità del Cile di fare i conti con il proprio passato. La campagna elettorale ha mostrato un Paese spaccato: da un lato chi invoca giustizia sociale e riforme, dall’altro chi chiede ordine e sicurezza. Se Kast dovesse vincere, il Cile inaugurerebbe una nuova stagione politica che potrebbe avere ripercussioni profonde sia sul piano interno sia su quello internazionale.



