Una proposta di ingegneria finanziaria dal disegno accorto, capace di garantire risorse reali a Kyiv e di schermare l’Ue dagli appetiti americani sul controllo degli asset russi, è l’ipotesi che Bruxelles vuole presentare al Consiglio Ue di dicembre. La Commissione Europea punta ad arrivare al Summit con una proposta giuridicamente vincolante, una soluzione che abbia almeno la solidità normativa per resistere a dubbi di legittimità e, idealmente, per ridurre l’impatto di ritorsioni legali e oscillazioni dei mercati. Che i rischi di contenzioso siano inevitabili lo ha ribadito Vladimir Putin, che in queste ore ha alzato la pressione, bollando l’eventuale utilizzo delle riserve congelate come “furto” e promettendo ritorsioni. Dietro la fretta europea non ci sono solo i bisogni immediati di risorse per l’Ucraina, ma anche la necessità politica di non farsi scavalcare da Washington nei negoziati di pace. La bozza del precedente piano di pace in 28 punti studiata da Mosca e Stati Uniti — poi ridotta a 19 punti dopo le osservazioni di Bruxelles — ha reso esplicito l’obiettivo reale di Donald Trump: arrivare ai 260 miliardi di asset russi congelati in Europa, una somma su cui gli Stati Uniti non vantano diritti, considerando che lo stock immobilizzato sotto la loro giurisdizione è di appena cinque miliardi di dollari e che solo il 7% dei 260 miliardi europei è in dollari. Ancora meno rilevante è il fatto che appena il 7% degli asset congelati nel continente riguardi la valuta americana, e che solo il 7% dei beni europei sia in valuta statunitense. A insospettire subito Parigi è stato il disegno iniziale del piano, che consegnava cento miliardi di asset russi alla ricostruzione dell’Ucraina sotto guida americana, con Washington titolare del 50% dei profitti maturati, mentre un’altra quota di beni sanzionati andava a confluire in un veicolo di investimento congiunto Usa–Russia per “progetti comuni”, con l’Ue costretta a impegnare altri cento miliardi di risorse proprie. Emmanuel Macron ha reagito con un’avvertenza dura: l’Europa è l’unica a poter decidere di beni russi custoditi in Europa, non gli Stati Uniti. La clausola 14, quella sui beni congelati, è stata rapidamente accantonata, ma il Continente ora sente la stretta al proprio collo. A inizio 2026 le finanze di Kyiv cominceranno a essere sotto stress e presentarsi a dicembre con un progetto “in bianco” equivarrebbe a un suicidio negoziale. Le stime ufficiali sui resti congelati indicano che 195 miliardi di euro sono custoditi in Belgio da Euroclear, la clearing house che fa da depositario a gran parte delle riserve valutarie congelate. Ci sono poi 20 miliardi immobilizzati in Francia, 25 miliardi di sterline nel Regno Unito, 30 miliardi di euro in Giappone, 10 miliardi in Lussemburgo, 7 miliardi di franchi svizzeri in Svizzera. Complessivamente, gli asset non–Ue (Uk, Svizzera, Giappone) aggiungono circa 70 miliardi di dollari.
Una delle ipotesi accarezzate dalla Commissione prevede un prestito a tasso zero di Euroclear alla Commissione stessa con la liquidità maturata su titoli russi già scaduti. L’Ue creerebbe uno Special Purpose Vehicle (Spv) che riceverebbe i fondi, per poi girarli a tasso zero all’Ucraina. Il disegno è lineare, ma secondo Bruxelles non abbastanza “schermato”. Per prima cosa crea un legame finanziario diretto tra gli asset bloccati e il finanziamento all’Ucraina, esponendo il Belgio a contestazioni e richieste di risarcimento da parte di Mosca. Prevede inoltre garanzie implicite da parte degli Stati membri in caso di sblocco delle riserve con esclusione automatica di altri titolari di asset come Uk, Svizzera e Giappone. Ed è esattamente quello che il Belgio non vuole: essere il Paese schiacciato dalla “prossimità legale” del trasferimento. Euroclear lo ha messo nero su bianco in una lettera visionata dal Financial Times e indirizzata a Ursula von der Leyen e al presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa. La Ceo Valerie Urbain ha avvertito che una mossa del genere verrebbe percepita come “confisca”, spaventerebbe i grandi gestori di riserve (fondi sovrani e banche centrali), innalzerebbe i premi di rischio e causerebbe un aumento sostenuto degli spread sul debito sovrano europeo. Costi di indebitamento più alti, insomma, per tutti, con i governi chiamati a coprire eventuali danni, rischi di liquidità e ritorsioni legali internazionali, oltre a potenziali ritorsioni in Russia o in Paesi terzi. Il core del problema è che quel flusso di rendimenti non è pubblico ma privato: secondo l’accordo tra la Banca centrale belga e Euroclear, nessun diritto legale sui proventi dei titoli russi scaduti spetta a banche centrali — né a quella belga, né tantomeno a quella russa. Titoli che dopo il G7 di Borgo Egnazia nel 2024 dovevano essere indirizzati a un prestito all’Ucraina, ma che nel tempo sono stati investiti in un conto deposito presso la Bce, generando rendimenti che sono finiti nelle casse private della clearing house o nel gettito fiscale belga (attraverso la tassazione sui redditi da capitale al 25%). Urbain ha spiegato anche che l’imposizione a Euroclear di investire in strumenti “su misura” a interesse zero sarebbe considerata da Mosca come confisca secca, con conseguenze imprevedibili. Su questa incertezza finanziaria, Brad Setser, economista ed ex staff del Tesoro americano sotto l’amministrazione Obama, ha codificato due proposte alternative in un paper per il Council of Foreign Relations. La prima prevede un Spv che investirebbe i profitti maturati dai titoli russi scaduti in un portafoglio di bond sovrani europei a 10 anni, non pesato sulle dimensioni del mercato ma sui rendimenti più alti — quindi Btp italiani, titoli spagnoli, francesi e portoghesi. Le cedole di questo portafoglio generato dallo Spv verrebbero usate per pagare i costi di finanziamento di un bond separato emesso dall’Unione Europea, bond questa volta destinato esplicitamente al finanziamento di Kyiv. Il succo della “magia ingegneristica” è proprio la separazione totale dei due flussi: il prestito a Kyiv viene rimborsato dai proventi generati da un veicolo finanziario legalmente e contabilmente distinto, aumentando la distanza giuridica e riducendo il rischio di contenzioso. Il piano potrebbe essere rafforzato dal coinvolgimento di Uk, Svizzera e Giappone attraverso la creazione coordinata di una imposta sui redditi da capitale maturati sui asset congelati nelle loro giurisdizioni, incrementando così la potenza di fuoco dell’iniziativa. La seconda proposta di Setser evita invece i bond sovrani ad alto rendimento e prevede l’impiego dei proventi in un portafoglio obbligazionario standard a basso rischio, replicando in sostanza ciò che è già avvenuto nelle casse di Euroclear: titoli russi scaduti reinvestiti in attività liquide a bassa redditività come depositi presso banche centrali o strumenti low–risk. Anche in questo caso, il rendimento del portafoglio verrebbe impiegato per pagare gli interessi di un bond Ue emesso sul mercato a copertura del maxi–prestito verso l’Ucraina, con distacco ancora superiore tra asset sanzionati e sostegno a Kyiv. A monte ci sarebbe un’iniziale maggiore necessità di emissioni sul mercato, ma Setser sostiene che non si tratterebbe di un game–changer per il ruolo dell’euro: non ci sono prove che il congelamento delle riserve russe all’inizio del conflitto abbia minato il suo ruolo globale, i numeri — pur importanti — restano inferiori al 7% delle riserve in euro detenute a livello globale e, aggiusta, la quota dell’euro nelle riserve globali è anzi aumentata marginalmente. Nel disegno teorico dell’economista, i Stati membri non sono chiamati a garantire i prestito verso l’Ucraina, a meno di scenari estremi come una resa incondizionata di Kyiv. I beni russi restano russi, investiti in asset liquidi e facilmente scongelabili in caso di accordo, ma nel frattempo generano il flusso per pagare il bond Ue appositamente emesso. Politicamente nessuno in Europa vorrebbe percorrere queste strade. Tecnicamente sono complesse. Ma, dice Setser, se si vuole aiutare davvero l’Ucraina senza trasformare l’operazione in un “affare americano” a spese dell’Ue, sono le uniche due opzioni che davvero alzano il muro della separazione giuridica. Nel resto, lo schema resta una chiamata al tempo: ossigeno per le casse di Kyiv mentre il conflitto si allunga nella doppia speranza che si arrivi a un accordo di pace o, in scenari peggiori, che l’economia russa ceda dall’interno prima di quella ucraina.



