Per la prima volta dalla fine della guerra civile, la Siria ha eletto un nuovo parlamento. Il voto, svoltosi il 5 ottobre, segna un passaggio cruciale nella transizione politica del Paese, dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad lo scorso dicembre. Ma se da un lato l’evento è stato salutato come un segnale di rinascita democratica, dall’altro solleva interrogativi sulla reale rappresentatività dell’assemblea. Il nuovo parlamento sarà composto da 210 membri, di cui solo 140 eletti attraverso collegi elettorali locali. I restanti 70 saranno nominati direttamente dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa, ex leader del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham, che ha avuto un ruolo decisivo nel rovesciamento del regime. Secondo diverse ONG, il sistema elettorale favorisce la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, minando il pluralismo. Tre province — Raqqa, Hasakah e Suwayda — sono state escluse dal voto per motivi di sicurezza. In queste aree vivono minoranze curde e druse, che ora rischiano di restare senza rappresentanza. Non sono previste quote per donne o gruppi etnici, anche se al-Sharaa ha promesso di includere figure “simboliche” tra le nomine. I circa 1.500 candidati si sono presentati come indipendenti, in assenza di partiti politici riconosciuti. L’Alto Comitato Elettorale, anch’esso nominato dal presidente, ha imposto rigide restrizioni: esclusi gli ex membri del regime, chi ha precedenti penali o legami con movimenti autonomisti. Nonostante le critiche, molti siriani vedono nel voto un primo passo verso la normalizzazione. “Non è perfetto, ma è un inizio”, ha dichiarato Henry Yosef Hamra, primo candidato ebreo dal 1967, in corsa nel distretto di Damasco. Il nuovo parlamento avrà un mandato di tre anni e dovrà redigere una costituzione permanente. Resta da vedere se sarà davvero l’inizio di una Siria pluralista, o solo una nuova forma di controllo.
