Quando il tempo è racconto. Analisi sulle nuove tendenze della durata nelle fiction tv

La durata delle singole puntate delle fiction tv si è notevolmente allungata rispetto ai 40–50 min delle origini. Con l’avvento, poi, delle piattaforme streaming la questione è diventata ancora più libera perché non più condizionati dalle strette gabbie del palinsesto e delle pubblicità, rendendo questo genere estremamente fluido e centrale
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La lunghezza delle puntate nelle fiction televisive è cambiata radicalmente dalle origini a oggi, passando da una standardizzazione imposta dal palinsesto a una libertà creativa senza precedenti. Oggi, la durata non è più un vincolo, ma uno strumento al servizio della narrazione. La lunghezza degli episodi, da semplice dato tecnico, si è trasformata in una vera e propria scelta espressiva, che contribuisce a definire il carattere e il successo di ogni serie. In futuro ci si aspetta una continua evoluzione, con una crescente personalizzazione dell’esperienza dello spettatore e una sempre maggiore interazione tra contenuto e pubblico.

Nel panorama dell’intrattenimento televisivo, la fiction ha svolto un ruolo fondamentale nel plasmare gusti, abitudini e aspettative del pubblico e la durata delle singole puntate ha sempre avuto una grande importanza nella narrazione seriale. Dalla loro nascita fino all’era dello streaming, questa si è modificata notevolmente, riflettendo trasformazioni tecnologiche, cambiamenti di mercato e nuove modalità di fruizione.

La fiction agli albori della televisione

All’inizio della storia televisiva, la fiction era concepita principalmente come una forma di intrattenimento settimanale, spesso legata a sponsor o trasmessa in orari prestabiliti. Negli Anni ’50 e ’60 le prime serie televisive statunitensi, come “I Love Lucy”, “The Twilight Zone”, “Gunsmoke”, avevano puntate che oscillavano tra i 20 e i 30 minuti per i prodotti comici (sitcom) e tra i 40 e i 50 minuti per i prodotti drammatici (drama series). Nel contesto italiano, il modello si consolidò più tardi, con fiction come “La famiglia Benvenuti” (1968) e “I Promessi Sposi” (1967), la cui durata degli episodi variava tra i 50 e i 60 minuti, anche in relazione alla necessità di adattare grandi opere letterarie o storie articolate.

Gli Anni ’70-’80: la standardizzazione e la centralità del palinsesto
Con l’affermarsi della serialità, la lunghezza degli episodi si uniforma: le reti televisive, sia pubbliche che private, impongono uno schema preciso per facilitare la programmazione e la vendita degli spazi pubblicitari. Negli Stati Uniti i drama mantengono i canonici 45/50 minuti, mentre le sitcom restano ancorate ai 22/25 minuti, escludendo gli spazi pubblicitari.

In Italia, la Rai, e successivamente Mediaset, stabiliscono formati più lunghi per le fiction di prima serata, con episodi tra i 90 e i 100 minuti, spesso suddivisi in due parti trasmesse in serate consecutive (miniserie). Più avanti, anche nei prodotti seriali di lunga durata come “Un posto al sole”, si assiste a una standardizzazione verso i 25/30 minuti per le puntate quotidiane, rispecchiando il modello delle soap opera americane.

Gli Anni ’90-2000: la diversificazione dei formati

Con la crescita delle produzioni internazionali e l’arrivo di nuovi broadcaster, i formati cominciano a diversificarsi. Negli Stati Uniti, serie come “ER – Medici in prima linea”, “X-Files”, “Friends”, “Buffy the Vampire Slayer” consolidano il modello del doppio formato: 22 minuti per le comedy, circa 44 minuti per i drama.

In Italia la fiction di prima serata mantiene episodi lunghi, tra i 90 e i 100 minuti, ma aumentano le serie con puntate da 50 minuti, soprattutto quelle destinate a giovani e famiglie. Allo stesso tempo, il successo delle soap opera porta a una proliferazione di episodi da 20-30 minuti, pensati per la programmazione pomeridiana. Questa diversificazione è spesso legata al target di pubblico e alla collocazione in palinsesto: la fiction serale resta lunga e articolata, quella pomeridiana diventa più breve e ritmata.

L’era dello streaming: la rivoluzione digitale

L’avvento delle piattaforme digitali come Netflix, Amazon Prime Video, Disney+ e Sky ha rivoluzionato completamente la concezione della durata delle puntate. Non esistono più vincoli legati al palinsesto televisivo né limiti imposti dagli spazi pubblicitari; gli autori e i produttori possono scegliere liberamente la lunghezza più adatta alla narrazione.

Così, la serialità contemporanea si distingue per una grande varietà di formati: serie con episodi brevi (15-25 minuti), pensate per un pubblico giovane e una fruizione rapida, come “Love, Death & Robots” o “Special”; serie con episodi medi (30-40 minuti), tipiche delle comedy-drama e dei prodotti più sperimentali, come “Fleabag”, “The End of the F***ing World”; serie con episodi lunghi (45-60 minuti), più vicine ai modelli tradizionali, come “Stranger Things” o “The Crown”; serie che alternano la lunghezza degli episodi in base alle esigenze narrative, come “Sherlock” (episodi da 90 minuti) o “Black Mirror”, dove ogni puntata è concepita come un film indipendente.

La libertà concessa dalle piattaforme on-demand ha favorito una narrazione più flessibile. Gli autori possono calibrare la durata in funzione della trama, senza dover “riempire” un tempo fisso. In alcune serie, la lunghezza degli episodi varia sensibilmente all’interno della stessa stagione, in altre, si torna al formato del film singolo che supera i 90 minuti.

Fattori che hanno influenzato la lunghezza delle puntate

Diversi fattori hanno contribuito a questa evoluzione: i vincoli tecnici e commerciali derivanti dal palinsesto televisivo che imponeva limiti precisi, ora superati grazie allo streaming; il target del pubblico, perché le serie pensate per giovani o bambini tendono ad avere episodi più brevi, mentre quelle per adulti, più lunghi e complessi; la sperimentazione narrativa. La libertà creativa concessa dallo streaming permette di adattare la lunghezza alle esigenze del racconto, favorendo la varietà e l’innovazione.

Impatto sul pubblico e sulla narrazione

La variazione nella lunghezza delle puntate ha modificato profondamente il modo in cui gli spettatori fruiscono le fiction. Le maratone (“binge-watching”) sono favorite da episodi brevi, mentre le puntate lunghe richiedono maggiore attenzione e coinvolgimento emotivo. Questa flessibilità ha permesso di raggiungere un pubblico più ampio e di rispondere a esigenze diversificate.

Dal punto di vista narrativo, la possibilità di variare la lunghezza ha favorito storie più articolate e profonde. Gli autori possono soffermarsi su aspetti psicologici, dedicare interi episodi a personaggi secondari o esplorare archi narrativi complessi, senza dover rispettare vincoli rigidi.

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