Dopo quasi mezzo secolo di detenzione ingiusta, la polizia giapponese ha presentato pubblicamente le proprie scuse per il caso di Iwao Hakamada, l’ex pugile condannato a morte nel 1968 per un quadruplice omicidio che non aveva commesso. Hakamada è morto lo scorso agosto all’età di 89 anni, pochi mesi dopo essere stato definitivamente assolto. La sua vicenda è una delle più drammatiche nella storia giudiziaria del Giappone. Arrestato a 32 anni, fu accusato di aver ucciso il direttore della fabbrica in cui lavorava, la moglie e i loro due figli. La condanna si basò su una confessione estorta durante 264 ore di interrogatori disumani, senza pause né accesso all’acqua. Le prove principali — cinque capi d’abbigliamento macchiati di sangue — furono successivamente dichiarate falsificate. Nel 2024, dopo decenni di battaglie legali condotte dalla sorella Hideko, la Corte distrettuale di Shizuoka ha riconosciuto l’innocenza di Hakamada e ha ordinato un risarcimento record di 217 milioni di yen (circa 1,2 milioni di euro), il massimo previsto dalla legge giapponese. Le scuse ufficiali sono arrivate dal capo della polizia nazionale, che ha definito il caso “una vergogna per il sistema giudiziario” e ha promesso riforme per evitare nuovi errori. Tuttavia, molti attivisti per i diritti umani ritengono che le scuse siano tardive e insufficienti. “Hakamada ha vissuto ogni giorno con la paura dell’esecuzione. Nessun risarcimento può restituirgli ciò che ha perso”, ha dichiarato l’avvocato Junpei Takahashi, che ha seguito il caso per oltre vent’anni. La morte di Hakamada chiude una delle pagine più dolorose della giustizia giapponese. Ma la sua storia resta un monito: anche nei sistemi più rigorosi, l’errore giudiziario è possibile — e può durare una vita.
