Il governo peruviano ha acceso un nuovo fronte di polemica con la promulgazione di una legge che concede l’amnistia a militari e poliziotti accusati di violazioni dei diritti umani durante il conflitto interno tra il 1980 e il 2000. La presidente Dina Boluarte ha firmato il provvedimento il 13 agosto, definendolo “un atto di giustizia verso chi ha difeso la democrazia contro il terrorismo”. La legge, approvata dal Parlamento a luglio con una maggioranza conservatrice, esclude dalla responsabilità penale centinaia di membri delle forze armate e dei comitati di autodifesa, coinvolti in crimini come torture, sparizioni forzate, violenze sessuali ed esecuzioni sommarie. Prevede inoltre la scarcerazione per chi ha più di 70 anni e già sconta condanne definitive, anche per reati gravi. Ma le reazioni non si sono fatte attendere. Le organizzazioni per i diritti umani, la Corte Interamericana e nove esperti delle Nazioni Unite hanno denunciato la misura come una “violazione del diritto internazionale” e un ostacolo alla giustizia per le vittime. Secondo la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, il conflitto ha causato oltre 70.000 morti e 20.000 scomparsi, in gran parte civili innocenti travolti dalla lotta tra lo Stato e i guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso. Il governo difende la legge come strumento di riconciliazione nazionale, sostenendo che molti processi sono stati politicizzati e che i militari hanno agito in un contesto di guerra. Ma per molti è un’amnistia mascherata che cancella la memoria delle atrocità. “Siamo indignati e traditi”, ha dichiarato Francisco Ochoa, sopravvissuto al massacro di Accomarca, dove perse la madre e i fratelli. “Questa legge è un insulto alla nostra sofferenza.” Il Perù si trova ora al centro di un dilemma etico e giuridico: può uno Stato promuovere la pace ignorando la giustizia? La risposta, per ora, resta sospesa tra le ferite del passato e le tensioni del presente.