Il 9 agosto si è celebrata la Giornata internazionale dei popoli indigeni, istituita dalle Nazioni Unite per riconoscere il contributo unico di oltre 476 milioni di persone in più di 90 Paesi. Quest’anno, il tema centrale è ruotato attorno a un principio spesso trascurato: il diritto a rimanere separati. Non come forma di isolamento, ma come espressione di autodeterminazione e protezione culturale. In un mondo che spinge verso l’integrazione forzata e l’omologazione, molte comunità indigene rivendicano il diritto di vivere secondo i propri ritmi, valori e sistemi di conoscenza. Dalla foresta amazzonica alle steppe della Mongolia, il desiderio di restare “altro” rispetto alla società dominante non è una fuga, ma una resistenza. È il rifiuto di perdere lingue, spiritualità, pratiche agricole e relazioni con la terra che sfidano la logica del profitto. Secondo l’UNESCO, i popoli indigeni sono custodi di oltre l’80% della biodiversità mondiale. Eppure, sono tra i più minacciati da deforestazione, estrattivismo e cambiamenti climatici. Il diritto a rimanere separati implica anche il diritto a dire no: no alla colonizzazione digitale, no alla mercificazione dei saperi ancestrali, no alla violazione delle terre sacre. L’Unione Europea ha ribadito il proprio impegno a sostenere questi diritti, finanziando strumenti come l’Indigenous Navigator, che consente alle comunità di raccogliere dati e monitorare le violazioni. Ma il riconoscimento formale non basta. Serve ascolto, rispetto e la volontà politica di proteggere chi sceglie di non essere parte del sistema dominante. Celebrando questa giornata, ci si interroga su cosa significhi davvero “inclusione”. Per i popoli indigeni, può voler dire anche essere lasciati in pace.
