domenica, 17 Novembre, 2024
Attualità

Se non è puro non è editore

La libertà di stampa è uno dei pilastri essenziali della democrazia pluralista.

Le fondamenta della libertà di stampa sono l’indipendenza dei giornali dalla politica, l’autonomia finanziaria delle imprese editoriali e la possibilità per i giornalisti di svolgere la propria attività senza condizionamenti impropri.

Per dare ai giornalisti la possibilità di lavorare senza imposizioni, censure, limiti al diritto/dovere di informare occorre che gli editori siano a loro volta liberi di essere imprenditori in questo settore e di non subire pressioni politiche, limitazioni che derivano da altri interessi per loro prioritari e che possano entrare in conflitto con l’attività editoriale.

Su questa catena di conseguenze logiche si basa la grande questione dell’editore puro.

L’editore puro è la figura imprenditoriale che è libera per sé da altri vincoli e quindi può lasciare liberi i giornalisti di svolgere con correttezza il loro mestiere.

L’editore puro non è un imprenditore privo di idee o valori di riferimento. Ma un conto sono idee e valori un altro conto sono le appartenenze, le affiliazioni, i legami vincolanti con partiti e schieramenti politici e conglomerati di interessi economici.

Un partito o un movimento politico non può essere un editore puro perché il suo obiettivo è difendere a tutti i costi il proprio operato e anche i propri errori, proponendo la propria visione come alternativa a quella di altri. Un giornale di partito non è indipendente anche se ha il pregio di giocare a carte scoperte: è di parte e non può essere diversamente.

Imprenditori o società che abbiano interessi in settori diversi dall’editoria possono essere considerati “puri”? Perché no, ma a determinate condizioni. Proviamo ad elencarle e  a proporle  come  un punto di riferimento sulle norme da introdurre nel nostro ordinamento-al livello più alto possibile- per regolare una volta per tutte questa tematica

Potremmo definire editore puro la persona fisica o giuridica che ottiene il 70% dei propri proventi dalla pubblicazione e vendita di prodotti editoriali di tipo giornalistico. Nel caso di Società per Azioni il requisito del 70% deve essere rispettato da ciascuno dei soci che abbia una partecipazione rilevante (superiore al 2%). Se si tratta di azionisti con quote minori del 2% la percentuale richiesta scende dal 70 al 50%. Per tutti colori che detengono partecipazioni diffuse inferiori allo 0,01% non si applica nessun vincolo.

Chi non ha questi requisiti non dovrebbe poter esercitare questa attività.

Con questa regolamentazione rigida avremmo davvero editori interessati soprattutto a fare dei prodotti che si vendano, al servizio dei lettori e non usati per ottenere altri obiettivi per quanto legittimi. I giornali non possono essere usati come strumenti di lobbying, come mezzi per esercitare influenze o addirittura pressioni politiche, o come megafoni di interessi aziendali in conflitto con la correttezza, la completezza e la libertà delle informazioni fornite all’opinione pubblica.

Se si volesse applicare una regolamentazione meno rigida si potrebbe immaginare un sistema di tassazione differenziato che penalizzi gli editori che non rispettano il tetto del 70%.

Si potrebbero anche introdurre incentivi agli investimenti pubblicitari attuati presso le testate di editori puri. Tali incentivi dovrebbero essere molto consistenti, per bilanciare l’eventuale minore diffusione di giornali di editori puri, presumibilmente più deboli per potenza finanziaria rispetto a quelli di editori che hanno notevoli proventi da attività non editoriali.

Nel caso in cui non si applicasse la soglia del 70% sopra descritta si potrebbe imporre all’editore “non puro” di cedere almeno il 10% della proprietà editoriale ai giornalisti ad un prezzo inferiore al 50% del valore di mercato.

Si tratta solo di alcuni suggerimenti concreti per far scendere dalle nuvole le polemiche sull’editore puro e cominciare concretamente a definire delle regole non contro qualcuno particolare ma a difesa di una democrazia libera, pluralista e aperta.

Lasciare le cose come stanno in Italia significa indebolire la libertà di stampa e inquinare l’opinione pubblica con una informazione inadeguata, inattendibile, poco trasparente e sospettata di essere al servizio di interessi più o meno occulti.

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